La via per l’Inferno è lastricata di buone intenzioni.
Gli Stati Uniti d’Europa sono una buona intenzione. Che ci sta portando all’Inferno: semplicemente, non vi sono rappresentanze tra le élite e i governati, così come non vi sono tra le élite dei partiti politici e le basi rappresentate, spesso in buona fede, spesso composte da persone deliziose e che sottraggono tempo e denaro per una causa che, però, viene sistematicamente tradita.
Nell’era in cui le bombe sono diventate intelligenti e le guerre sono missioni di pace, non c’è da stupirci che lo specchietto per le allodole per gestire decine e decine di milioni di persone debba essere un bene supremo. Gli Stati Uniti d’Europa, appunto. Un sogno.
Costruire sogni consta ovviamente di errori, umanamente. Ma c’è anche il rischio che ci sia chi voglia profittare dei sogni per avvantaggiarsene: rari sono i casi in cui ciò non è avvenuto, in democrazia come in dittatura o in monarchia.
Avevo spesso sentito citazioni dell’economista keynesiano Nicholas Kaldor, perché già nel 1971 si pose il problema degli Stati Uniti d’Europa e dell’unione monetaria. Vi rimando all’articolo di Keynesblog.com per maggiore informazione: clicca qui.
Il succo del suo pensiero era questo: “Se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali saranno tali da generare pressioni che conducono ad una rottura dell’intero sistema, è chiaro che lo sviluppo dell’unione politica sarà ostacolato e non promosso”.
Questo è il passaggio che ci interessa, perché ci troviamo, a 42 anni da quelle parole, proprio in quel punto.
Ho cercato, però, di aggiungere qualcosa che desse testimonianza delle “pressioni che conducono ad una rottura”, avendo, a differenza di Kaldor, qualche dato analitico che lo comprova.
C’è, innanzitutto, il famoso spread, ovvero il differenziale di interesse pagato sui titoli di stato. Differenziale bassissimo quando la finanza era allegra, invece sempre più ampliato con l’arrivo della crisi: ampliato non solo perché crescevano gli interessi richiesti da chi sottoscriveva titoli di stato italiani, ma anche perché i tassi nei titoli tedeschi scendevano, ampliando la forbice. Sì, possiamo dirlo: alle casse pubbliche tedesche la crisi finanziaria è convenuta. Conviene ancora?
Questo problema costa alle casse pubbliche italiane qualcosa come una cinquantina di miliardi di euro all’anno: mentre in Italia vengono versati per questa spesa improduttiva (specialmente il 40%, che è in mano ad investitori stranieri) in Germania usano questo gruzzolo per strade, scuola, sanità, ricerca, investimenti, e qualche tassa in meno.
Meno conosciuto invece è il costo del differenziale dell’inflazione.
Ma è veramente un aspetto che porta alla “rottura” dell’Unione monetaria europea.
Avendo la stessa moneta, il differenziale di inflazione tra gli Stati, pur se in piccole percentuali, determina nel lungo periodo gravi problemi di competitività tra gli stessi, quindi tra le aziende concorrenti, perché gli Stati non hanno la possibilità di far oscillare il cambio della propria moneta sovrana in base all’inflazione interna.
Dal 1999 (anno in cui furono abolite le oscillazioni delle valute, poi diventate euro dal 2002) ad oggi l’Italia ha accumulato un differenziale di inflazione, rispetto alla Germania, pari al 9,2% (inflazione cumulata pari a 31,4% in Italia e 22,6% in Germania). Peggio ancora in Spagna (17%) e Grecia (20%).
L’Italia, in realtà, è stata brava e rispettosa delle regole del Trattato di Maastricht secondo il quale il tasso di inflazione non deve essere superiore all’1,5% rispetto alla media dei tre Paesi migliori. Accumulare il 9,2% in 14 anni (per il 2012 abbiamo utilizzato i dati di ottobre) equivale ad un differenziale annuo medio dello 0,65%. Benissimo, siamo dentro Maastricht! Bravi, applausi! Altro che maiali.
Tuttavia, in 14 anni, capiamo quanto sia scritto male un trattato fondamentale per la vita di tutti noi.
L’Italia, pur rientrando nei parametri per quel che riguarda l’inflazione, ora ha un differenziale del 9,2% e che continuerà ad aumentare in futuro. In termini pratici significa che se nel 1999 un’azienda italiana e una tedesca producevano merci allo stesso prezzo (poniamo 100 euro), oggi l’azienda italiana, a parità di altre condizioni (pur tuttavia quasi tutte peggiorate, dalla produttività all’aiuto pubblico al differenziale salariale alle imposte…) deve vendere a 131,4 euro, mentre l’azienda tedesca vende a 122,6.
Quindi quelle aziende italiane faticano a gareggiare nei mercati internazionali, e oltretutto sono aggredite persino in quello nazionale, e non hanno più un cambio che le difende rendendo automatici gli aggiustamenti interni nei commerci internazionali (e persino in quelli domestici).
(L’euro, ad esempio, in pochi anni ha perso il 20% del proprio valore sul dollaro).
E ogni anno che passa, ecco altre aziende che vengono messe fuori mercato; oppure, per restarci, devono comprimere in tutti i modi i costi: dai profitti ai salari. Fino alla chiusura. O alla delocalizzazione, chi può.
Ora, giriamo le nostre osservazioni, basate non su sentimentalismi, irrazionalità, giogo demagogico elettorale, sfruttamento della mancata consapevolezza collettiva, a coloro i quali, continuamente (anche durante queste Primarie del centrosinistra) hanno parlato di Stati Uniti d’Europa.
Perché, crediamo, devono affrontare quel discorso sulla base di questi numeri, e di queste tendenze, e non accodarsi, come pecore, in base a quanto ordinato dal capomandria.
Certo, se persino il Presidente di Confindustria, un grande imprenditore come Giorgio Squinzi, afferma che vuole gli Stati Uniti d’Europa, ovvero sta mandando al macello le aziende italiane da lui stesso rappresentate, allora di speranze ce ne sono poche.
E ritorno a Kaldor, allora, anche per non mescolarmi con quanti, ovviamente, cavalcheranno questo tema per speculazioni politiche (non saranno loro i colpevoli, ma chi ha consentito, per ottusità, che avvenisse).
Quando si parla di Stati Uniti d’Europa si intende l’elezione di un vero Parlamento (non quello attuale, quindi), di un Presidente d’Europa, di un Governo europeo esecutivo (non di una Commissione sovra-governativa, quindi).
A quel punto gli Stati Uniti d’Europa dovrebbero avere: la stessa moneta (come ora), lo stesso debito pubblico, lo stesso tasso di interesse sul debito. Questo risolverebbe i problemi dello spread.
Come risolvere, invece, i problemi regionali (perché le nazioni sarebbero compiutamente regioni: come avviene ora, d’altronde…) determinati dai differenziali di inflazione, ma anche dalla diversa produttività, dall’arretratezza infrastrutturale?
Kaldor, 1971: “Sotto questo sistema, come gli eventi hanno dimostrato, alcuni paesi tenderanno ad acquisire crescenti (ed indesiderati) surplus commerciali nei confronti dei loro partner commerciali, mentre altri accumulano crescenti deficit. Ciò porta con sé due effetti indesiderati. Trasmette pressioni inflazionistiche da alcuni membri ad altri; e mette i paesi in surplus nelle condizioni di fornire finanziamenti in automatico ai paesi in deficit in scala crescente. Essa richiede la creazione di un Governo e Parlamento della Comunità che si assumano la responsabilità almeno della maggior parte della spesa attualmente finanziata dai governi nazionali e la finanzi attraverso tasse equamente ripartite tra i membri comunitari. Con un sistema integrato di questo tipo le aree più ricche finanziano in automatico quelle più povere, e le aree che sperimentano un declino delle esportazioni sono automaticamente alleggerite pagando meno e ricevendo di più dal Fisco centrale. La tendenze cumulative all’aumento e alla diminuzione sono così tenute sotto controllo da uno stabilizzatore fiscale costruito all’interno del sistema che consente alle aree in surplus di fornire automaticamente aiuto a quelle in deficit”.
Ah.
Quindi non sono i “maiali” d’Europa che devono soffrire, ma sono i paesi che beneficiano della moneta unica che devono “finanziare in automatico” quelli più poveri.
Ah. Bene.
Chiaro. Lampante.
Come avviene in ogni nazione nei confronti delle proprie regioni. Come avviene negli Stati Uniti d’America nei confronti degli States che li compongono.
Vediamo, invece, come si comportano gli Stati europei e i leader che, ad ogni passo, si riempiono la bocca di “sacrifici” da compiere in nome dell’euro e dei futuri Stati Uniti d’Europa.
Il primo dato da cui partire, restando all’Italia, è che dal 2000 al 2011 il nostro paese ha versato al bilancio della Unione Europea 25 miliardi in più di quanto abbia ricevuto. Ergo, dovrebbe essere considerato uno Stato ricco, che quindi “dà”, e non uno Stato povero, “maiale”. Qualcosa non è chiaro, ovviamente.
Il secondo dato si chiama Fiscal Compact: sulla cui base, per giungere ad una finanza pubblica armonica, l’Italia dovrà varare manovre lacrime e sangue di 45 miliardi di euro per venti anni, senza respiro. Follia.
Il terzo dato si chiama Bilancio Europeo: perché il Fiscal Compact sarebbe persino comprensibile, in cambio di qualcosa. In cambio ovvero di un aumento del Bilancio Europeo di almeno cinque o dieci volte per riversarne i fondi a favore di quegli Stati, trasformati in regioni, che dimostrino di saperli gestire e non sperperare. Tutto questo invece non esiste.
Il Bilancio Europeo è una somma esigua, appena 142 miliardi nel 2011, l’1% del Pil: una cifra priva di senso se si considera invece che l’Unione Europea è il nostro vero governo; o che negli Stati Uniti il Bilancio Federale è del 24%. Addirittura le spese amministrative rappresentano il 6% di questi 142 miliardi: in percentuale, uno sproposito rispetto ai “costi della politica” ad esempio in Italia. Meno della metà, quindi circa lo 0,46% del Pil complessivo, è speso per “lo sviluppo e la coesione dei paesi più poveri”.
Ma la cosa buffa e tragica è che, anche di recente, gli Stati hanno deciso di evitare qualsiasi aumento dei 142 miliardi. Non vi è quindi alcun accordo scritto sul Bilancio Europeo in un orizzonte ventennale, contrariamente a quanto avviene per il Debito Pubblico e i Deficit Pubblici. Una rapina legale.
Non vi è alcuna volontà degli Stati che traggono beneficio dalla moneta unica, di privarsene.
E nessuno mostra alcun tipo di possibile concessione futura, nonostante i sacrifici chiesti ai soliti “maiali”.
Il risultato sarà la “rottura“: finanziaria e politica.
Tecnocratica e sterilizzata nei paesi come il nostro, da Alba dorata in quelli che sarà meglio dimenticare.
Chi chiede più Europa, sappia che dovrà avere la forza politica di andare da Merkel, Draghi, Cameron e Hollande e convincerli che, ogni anno, dai paesi centrali a quelli periferici ci dovrà essere un trasferimento di 100 o 200 miliardi.
Chissà se Bersani queste cose le capisce…
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Mi pare che nè Bersani nè Renzi abbiamo avuto un approccio razionale al problema Europa, piuttosto anche loro, come altri rappresentanti di forze politiche note, hanno tenuto il solito atteggiamento dogmatico sulla ineluttabilità dell’europa e di conseguenza, sulla sostanziale necessità dell’architettura dell’agenda Monti; poi ogni competitore ha cercato di guarnirla per imprimervi la propria personalità ma sempre di supposta si tratta. Quella degli stati uniti d’europa, a parte la sostanziale irrealizzabilità entro i prossimi 20 anni, sarebbe la soluzione per continuare a galleggiare, più o meno a lungo, lasciando il controllo delle leve economiche in mano ai soliti organismi non… Leggi il resto »
Sono d’accordo. Il risultato di un Europa si fatta, sarà un disastro sociale, politico ed economico. Aggiungerei, sommessamente, che ci sono state minoranze, in questi decenni, che alle osservazioni che oggi fai, si sono mobilitati nelle piazze e hanno votato coerentemente nel parlamento italiano ed europeo/i. Il riferimento greco, ai neonazisti di “Alba dorata”, se ho ben capito, manca di una parte importante. Il secondo partito greco non è quello neonazista ma è la “Coalizione della sinistra radicale” conosciuta come “Syriza”. Ma spesso, come per l’estrema destra, la maggioranza dei tuoi colleghi, studiano poco. Syriza non nasce con la crisi… Leggi il resto »