L”accesa polemica di questi giorni sul brodetto alla sambenedettese mi dà spunto per raccontarvi una storia: quella della cucina italiana, delle sue ricette e della nostra cultura. Capire il passato spesso aiuta a interpretare meglio il presente per interpretare criticamente insieme di quanto si è scritto, detto e urlato riguardo al brodetto alla sambenedettese.
Punto primo, da ricordare assolutamente se non volete incorrere nell’ira funesta sambenedettese, il brodetto non è una normale zuppa di pesce e forse neppure un canonico piatto tipico ma è qualcosa di molto più complesso. Innanzi tutto la ricetta: dodici pesci differenti (i dodici apostoli, così chiamati con evidenti riferimenti liturgici), peperone e pomodoro verde, aceto e rosmarino o maggiorana per profumare il tutto. La storia del brodetto parte da lontano e, sicuramente, a largo della costa adriatica, come dimostra la matrice etimologica slava del termine moderno.
Un piatto di bordo, rigorosamente povero, cucinato dai pescatori sambenedettesi utilizzando pesci di scarto (spezzati dalle reti o di poco pregio commerciale), sfumati con una sorta di vino acidulato (la masa) e arricchiti dall’acidità del pomodoro verde, scelto al posto del rosso in quanto meno deperibile. Un piatto che racconta la nostalgia della lontananza da casa, la fatica di vivere il mare e la cultura di un territorio che oggi si riconosce a tal punto in quel brodetto tanto da chiedere una De.Co. che possa tutelarne le tipicità, come abbiamo ascoltato al convegno dello scorso dicembre “Lu Vredètte” promosso da Confescercenti. De.Co. che, di fronte alle polemiche di questi giorni, diventa sempre più necessaria per ridurre la confusione e le polemiche.
Una De.Co. presuppone delle linee guida più o meno flessibili sulla preparazione del piatto e qui… “casca l’asino”. Ogni sambenedettese ha la sua ricette ed è pronto a difenderla con i denti: prezzemolo o maggiorana? quali pesci? spine sì o spine no? e in definitiva una vera risposta a tutto questo non c’è. Non c’è e perché questa è l’anima della cucina italiana, una cucina che nasce dal basso, non codificata in ricette o regole scritte, interpretata ogni giorno dall’intelligenza della mamme e delle nonne, dominata dall’improvvisazione proprio come nel caso del brodetto, preparato dai marinai tra morsi della fame e pesci di scarto offerti dal mare.
Affido alle parole della signora Benedetta Trevisani, presidente del Circolo dei Sambenedettesi, la riflessione finale “Raccogliendo le testimonianze di diverse madri di famiglia sulla cucina casalinga, alcune mogli di vecchi pescatori mi hanno raccontato come durante l’ultima guerra mondiale fosse spesso impossibile uscire a pesca, nonostante l’Adriatico sia sempre stato un mare molto generoso. Per non rinunciare al piatto abituale, loro facevano così un brodetto con peperoni e pomodori verdi, cipolla, aceto e… sassi. Pietre marine porose che davano alla preparazione il profumo del mare».
Ecco quindi che il brodetto si rivela per quello che è: un’identità di una cittadina, un piatto che esiste anche senza pesci, solo con il profumo del mare e il suo ricordo. Snaturare tutto questo è un peccato.
Per questo, affrontate con criticità le polemiche e difendete la vostra ricetta (anche se non è quella giusta!) perché state dimostrando di essere ancora ardenti difensori di un’autentica cultura locale che ci fa arrabbiare e discutere ma che rende unico il nostro brodetto. Senza portare nel piatto questa consapevolezza arricchita dai prodotti del nostro territorio (dal pesce, al vino, all’olio extravergine) per San Benedetto non avrebbe senso nessuna Expo.
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Un paio di rilievi al volo (non arrabbiatevi):
-lu vredétte si pronuncia con la E stretta, non “vredètte” come scritto nell’articolo (stavolta la lettere sulla tastiera italiana c’è, e la usiamo sempre col suono stretto, come quando si scrive “perché” e non “perchè”);
-la màse era aceto di vino allungato con acqua, portata come dissetante a bordo di lancette e paranze, dove non si cucinava; il brodetto nasce prima nelle case, cucinato probabilmente con l’aceto forte che si usava per conservare i peperoni verdi d’inverno e non con la màse.
Per anni abbiamo letto Anghiò al posto di Anghió, con la motivazione che sulle tastiere non c’è il carattere “ó”, è questo l’antefatto a cui mi riferivo nel discorso sull’accento, sono piccoli errori scusabilissimi in un articolo o blog, meno scusabili in una manifestazione ufficiale che usa fondi pubblici (la botta era per Anghió ma senza questa precisazione non si capiva). Scusa Laura se mi sono espresso male prima…
Secondo me in una access discussione su vera TV un cuoco difendeva il fatto di avere problemi nel presentare un piatto ad un utenza internazionale di 300 persone ad ogni turno e quindi la reperibilità sia si tanto e vario pesce. Di fatto lo stesso cuoco ha dichiarato di non volerlo presentare con il nome di brodetto alla sambenedettese. Dall altro un portavoce di una associazione appunto insisteva sul definire un protocollo per definirlo tale. A mio parere hanno ambedue ragione,ma il nostro brodetto è giustamente altra cosa ed è stupido volerlo codificare. Non è un cocktail aibes.
Ognuno dica la sua ma a Fano alla fine tutti d’accordo dal marinaio al ristoratore dopo aver ascoltato i vecchi pescatori e le relative mogli lo hanno certificato da un notaio come brodetto tradizionale di fano. Poi qualora lo si fa con qualche leggera variazione lo si chiama brodetto alla Fanese. Come l’aceto balsamico tradizionale di Modena e l’aceto balsamico di Modena. Ci sono voluti 2 anni di ricerca e di incontri. Questo è il modus operandi.
Assolutamente perfetto, questo è il percorso corretto per certificare lu vredétte… e ci metteremmo anche molto meno di due anni ripartendo dal gran lavoro fatto negli anni 80 dal compianto Marcello Camiscioni.