VALLADOLID – Colmano lo sguardo, le distese verdeggianti dei vitigni della Ribera del Duero, che appaiono come grandi scacchi all’interno del panorama più arido della Meseta, nella provincia di Valladolid. Siamo a duecento chilometri a nord di Madrid, nella Castilla y Leon, la regione più grande d’Europa (le Marche vi entrerebbero nove volte), anche se gli abitanti sono appena due milioni. Le cantine (qui le chiamano bodegas) della Castilla sono preparate per il momento più importante dell’anno: gli enologi controllano lo stato di maturazione dell’uva per capire quando arriverà il momento esatto dell’avvio della vendemmia; da queste parti non si scherza, perché la Meseta parte da 700 metri di altezza, e da ottobre le temperature notturne arrivano allo zero.
Così, tra creanza e riserva (il primo, è il vino invecchiato in botte, barrique, all’incirca 12 mesi; il secondo, invece, resta nel barrique anche per il doppio del tempo), il viaggio organizzato dall’Ordine dei Giornalisti delle Marche e la Provincia di Ancona – segue un identica visita di giornalisti e delegazione spagnola nella provincia anconetana, lo scorso giugno – diventa certamente un percorso conoscitivo del processo di produzione del vino, così come delle peculiarità culturali e turistiche di quest’angolo di Spagna. Ma la verità va letta al di sotto della superficie: così, tra un castello ristrutturato (Castel de la Mota, a Medina del Campo), e un canale recuperato come attrattiva turistica (Canal de Castilla), tra una antica cittadina, Urueña, recuperato dall’abbandono e diventato una Villa del Libro, con le sue biblioteche e le migliaia di visitatori che ogni anno lo visitano, per finire alla grande valorizzazione dei resti romani, trasformati in un Museo de las Villas Romanas, e naturalmente tra le numerose e grandi cantine della Ribera (diverse trasformate anche in hotel, fino a cinque stelle, o in musei del vino), quello che emerge nettamente è l’orgoglio della nuova Spagna, quella diventata quasi una terra promessa per le giovani generazioni italiane. C’è da capirli: qui, a dirigere una cantina che produce centinaia di migliaia di bottiglie l’anno (ad esempio Emina, frutto di un investimento di quasi trenta milioni di euro), c’è un giovane che non ha più di trentacinque anni; lo stesso, il direttore del Dìa de Valladolid (un media che racchiude, in una stessa struttura, un quotidiano, una tivvù, un giornale on line e una radio) ha il viso imberbe di chi, dalla parti del Bel Paese, verrebbe immediatamente bollato come “immaturo” per un incarico del genere.
Se l’abbraccio tra la Provincia di Ancona e la Diputaciòn de Valladolid nasce dalla presenza di un vino dal colore verde (al Verdicchio marchigiano qui contrappongono il Verdejo: ne sta nascendo una rete europea che comprende anche il Vinho verde di Oporto e lo Zèlen sloveno), sono tanti i trait d’union tra le due province (la Villa del Libro e il Museo della Carta di Fabriano, il turismo religioso di Loreto e Corinaldo con il cammino di Santiago de Compostela).
Ma, come ammette Patrizia Casagrande, presidente della provincia anconetana, «c’è da fare un plauso a questa gente, per come sono in grado di sfruttare le possibili occasioni di sviluppo che il loro territorio offre. Torniamo a casa con una grande lezione: si tratta di un insegnamento da trasferire alla nostra realtà, così ricca di storia, arte ma anche di imprenditoria, tanto da darci un vantaggio assoluto, e però così difficile da rilanciare unitariamente».
È proprio questo che manca alla nostra contrariata Italia: la capacità di credere in se stessa, di ridestarsi da un torpore che impedisce di meravigliarsi ancora. E se le Marche, come recitava un fortunato slogan, sono “l’Italia in una regione”, forse qui le contraddizioni sono ancora più accentuate da un atavico individualismo, fonte insieme di ricchezza e dell’incapacità di “fare sistema”.