Lo spunto per scrivere questo post mi è stato offerto qualche settimana fa, quando all’Università di Ginevra, ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Lercio “Lercio-Lo sporco che fa notizia” da parte di Vittorio Lattanzi. Una immersione nella satira che genera false notizie, oggi così
dibattuta.

Mi riferisco in particolare all’articolo di qualche giorno fa del New York Times che ha puntato l’indice contro la Lega e il Movimento 5 Stelle a tal proposito (https://www.nytimes.com/2017/11/24/world/europe/italy-election- fake-news.html).

Un articolo in cui si fa riferimento a un report della società Ghost Data di Andrea Stroppa, che evidenzia le interconnessioni tra diverse piattaforme online che diffondono e alimentano in modo non trasparente la protesta contro la classe politica da parte di attivisti proprio di questi movimenti. La presentazione mi ha dato lo spunto per riflettere sul fenomeno in senso generale. Sul motivo per cui un fenomeno come quello della generazione del falso con obiettivi spesso di intrattenimento e che ha dato origine in passato ad un genere letterario e stilistico di tutto rispetto, oggi ci stia esplodendo in mano.

Sì perché il mock-journalism, il giornalismo del falso che è quello che perseguono molti dei siti satirici che, scambiati per veri, poi danno origine al contagio della fake news, è un genere che ha origini lontane nel tempo e che conta tra i suoi seguaci intellettuali di tutto rispetto. A partire dal “fake nel fake” rappresentato dalla famosa performance alla radio di un ventitreenne Orson Welles che nel 1938 allarmava gli americani per un’invasione aliena; fake per la notizia data da Welles che si limitava a leggere dei passi de “La guerra dei mondi” di H.G.Wells e fake anche per la sua diffusione, visto che è del tutto falso che gli americani andarono in panico per quella notizia. La maggioranza di loro, infatti, era sintonizzata alla stessa ora su un altro canale che stava trasmettendo uno show di un ben più famoso ventriloquo e alla trasmissione di Welles si ebbero come reazione solo alcune telefonate di richiesta di chiarimenti. Passando per Mark Twain, che a 27 anni nel 1862 sconvolgeva la California pubblicando sulle pagine del Territorial Enterprise, un articolo, corredato di tanto di illustrazione, che raccontava della scoperta di un uomo pietrificato, chiaramente inventata. O Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, che a 16 anni nel 1722 puntava il dito contro il malcostume della società pubblicando sul The New England Courant, lettere di fuoco firmandosi come una vedova di mezza età, madre di tre figli a carico.

Niente di nuovo. Se non provoca danni, sa di bufala, possiamo verificarlo e non ci sfugge di mano.

Ma perché allora oggi ci sfugge così tanto di mano? Tanto che a cascarci sono testate che riteniamo degne di fiducia come Repubblica.it, che più di una volta ci ha trasmesso per vere, notizie la cui fonte era proprio il sito satirico Lercio?

Beh, innanzitutto perché non esistono più i segugi di una volta.

Il falso storico più eclatante della storia, la famosa Donazione di Costantino venne sbugiardata da uno studioso meticolosissimo, tale Lorenzo Valla, che parola dopo parola, lettera dopo lettera, con pazienza e dedizione comprese l’impossibilità di datare quel documento al 314 d.c. come presunto, contenendo delle contaminazione linguistiche che avrebbero potuto avere luogo solo successivamente. Oggi questi segugi sulla rete hanno un nome e si chiamano fact-checkers: coloro che controllano le fonti. Ma non sono così tanti e soprattutto non hanno la stessaforza di coloro che diffondono le notizie. Perché la velocità è un fattore cruciale per la smentita e purtroppo la ricerca necessita dei suoi tempi. Uno studio dell’Indiana University, Università che lo scorso anno ha creato un vero e proprio motore di ricerca per tracciare le bufale on line di nome Hoaxy  condotto su un campione di circa 14 milioni di tweet pubblicati, ha individuato in 10/20 ore il tempo medio necessario per sbugiardare la bufala da parte dei fact-checkers. Senza peraltro la garanzia di avere la stessa forza di penetrazione della bufala. Un tempo sufficiente per far esplodere un caso senza controllo.

Per questo il problema come al solito dovrebbe spostarsi a monte e non a valle. Ma qui c’è un problema ancora più grave che investe una intera categoria in crisi da troppi anni: il giornalismo d’inchiesta. Soprattutto in Italia, dove mostriamo di abboccare più spesso. Una professione la cui etica dovrebbe impedire per definizione di essere ingenue vittime dell’eco della notizia non verificata, dell’effetto cascata dettato dai social, dai milioni di bot (falsi account) di cui la rete è invasa. Se non possiamo fidarci della rete e non possiamo fidarci dei giornalisti che diffondono la notizia in rete e non possiamo fidarci delle testate che ospitano i giornalisti della rete, saremo destinati a perdere. Ognuno solo con il proprio ‘spirito critico’ (questo sconosciuto, che le
istituzioni scolastiche hanno smesso di trasmettere da troppo tempo) e con la propria testa senza la forza di generare numeri.

Gabriela Jacomella, co-fondatrice di Factcheckers, associazione no-profit che diffonde e promuove la cultura del fact-checking on line, nel suo testo per ragazzi “Il vero e il falso. Fake news: che cosa sono, chi ci guadagna, come evitarle”, Feltrinelli 2017, individua 10 semplici regole per trasformarci in verificatori di notizie. Ed aiutarci da soli in questa crisi di fiducia, madre della cosiddetta era della post-verità. Le condivido, perché forse non bastano, ma intanto ci credo.

1. Controlla l’URL. A volte l’inganno di nasconde proprio nell’indirizzo del sito.
2. Occhio alla data. Spesso sui social le bufale riemergono a distanza di tempo dalla loro prima comparsa
3. Attenzione al clickbaiting. Se una storia viene presentata con un titolo “urlato”, probabilmente state regalando soldi a un venditore di patacche
4. Controlla l’immagine. Il modo più semplice è fare una ricerca inversa su Google images o TinEye
5. Scopri chi c’è dietro. Ogni sito di informazione dovrebbe avere una sezione “chi siamo”: leggila.
6. Attento ai bot. Se un profilo twitter ha solo poche decine di tweet, e tutte legate alla notizia virale, o centinaia di migliaia, quasi sicuramente sei di fronte ad una bufala
7. Caccia ai bollini. Controlla se il profilo social che stai citando sia certificato (spunta blu accanto al nome)
8. Verifica le fonti
9. Cerca negli altri media
10. Fai visita a un altro fact-checker attraverso Google

Buona caccia!