Una breve premessa. Occuparsi di interpretazione implica un’osservazione della realtà diversa dal comune e che parta da alcuni presupposti. Il più importante di questi è affermare con forza che, nonostante la realtà fisica esista e sia sotto gli occhi di tutti, non è lei a condizionare le nostre vite, ma il modo in cui ognuno di noi la percepisce. Se dovessimo basare le nostre scelte su tutto ciò che è vero ed accertato come tale, infatti, semplicemente non vivremmo. Molto più naturalmente ricostruiamo i fatti in base a ciò che crediamo di aver visto, abbiamo intuito, ci viene raccontato, ricordiamo, leggiamo o immaginiamo. Non possiamo essere ovunque, non possiamo avere esperienza di ogni cosa, non possiamo ricordare tutto. E anche quando ci siamo, vediamo, facciamo esperienza delle cose, siamo condizionati dai nostri pensieri, le nostre emozioni, la nostra cultura, la nostra educazione. Pertanto cerchiamo di essere scrupolosi il più possibile, ma poi alla resa dei conti, ci fidiamo di qualcosa o qualcuno per capire. E agiamo di conseguenza. È umano, e del tutto ovvio.
Per questi motivi, e molti altri, tra tutte le possibilità espressive che abbiamo, raccontare la realtà è la cosa più difficile in assoluto. In disciplina, in materia di audiovisivo, ormai da diversi anni, si parla di postdocumentario per indicare tutto ciò che è difficilmente collocabile tra realtà, ricostruzione della realtà e finzione. Un caso emblematico e recente di questo stile di racconto è rappresentato da Making a murderer, un docu-crime che Netflix ha promosso alla fine del 2015 e che ha al centro le vicende giudiziarie di Steven Avery. Una docu-serie di 10 puntate diretta da Laura Ricciardi e Moira Demos, che consiglio vivamente.
La storia. Il nome di Steven Avery, figlio di una famiglia di rottamatori di auto nel Wisconsin, diviene noto nel 2003, quando grazie a un test del DNA, si scopre che la sua condanna per stupro avvenuta 18 anni prima, ed in seguito alla quale Steven è rimasto in carcere, è totalmente infondata. In seguito al rilascio, e dopo aver trascorso 18 anni in carcere da perfetto innocente, Steven fa causa alla contea per ottenere un risarcimento danni. Ma nel 2005, due anni dopo, viene arrestato di nuovo, per omicidio. Steven anche questa volta si dichiara innocente, ma le cose per lui non si mettono affatto bene. La difesa porta avanti la causa della teoria del complotto ai suoi danni, l’accusa cerca di inchiodarlo nonostante le circostanze delle indagini risultino poco chiare.
Dopo la notizia del secondo arresto, la storia diventa un perfetto bersaglio mediatico. Laura e Moira, le registe, capiscono immediatamente la portata dell’evento e si trasferiscono da New York nel Wisconsin per immortalare con la telecamera ogni dettaglio attorno alla vicenda. Grazie a riprese dal vivo, immagini e documenti d’archivio, registrazioni televisive, la narrazione si sviluppa a più livelli. Essa parte da Steven Avery, ma, in realtà, spazia su temi diversi: le falle del sistema giudiziario in primis, l’abuso di potere poi, l’influenza (negativa) dei media nelle indagini, per approdare ad un ritratto piuttosto preoccupante dell’America più autentica, quella delle fattorie, delle famiglie numerose e delle vite ai margini.
Il soggetto della vicenda è ancora del tutto in evoluzione e al centro della questione ormai da tempo non c’è più la discussione sulla sua innocenza o colpevolezza, ma il dramma di un sistema giudiziario che può legittimare con la stessa facilità entrambe. La storia sembra essere nata per essere filmata. I personaggi incarnano ruoli che sembrano sceneggiati. E noi non possiamo che guardare e rimanere increduli. Perché se è vero che le cose, a volte, vanno osservate anche solo per riflettere, direi che questo è perfettamente il caso.
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