MARTINSICURO – Un lavoro di parrucchiera a Martinsicuro il futuro che le era stato prospettato. Insegnante di matematica al Massachusetts Insitute of Technology (Usa) quello che è invece diventata. Segno che quando agli ostacoli e alle difficoltà che la vita inevitabilmente pone lungo il percorso si risponde con tenacia, grinta, impegno e determinazione, si può vincere la partita con il destino.

Il percorso di studi che la sua famiglia aveva immaginato per lei non era quello che poi l’ha portata negli States. Cosa è cambiato nel corso degli anni?

“Entrambi i miei genitori lavoravano in campagna e nessuno prima di mio fratello, che ha dieci anni più di me, era mai andato all’università. Mio padre morì di tumore al colon quando avevo dieci anni. Questo evento ha segnato il resto della mia vita in molti modi. In qualche modo il senso di stabilità provato fino ad allora svanì e la matematica diventò per me un punto di riferimento, la parte di mondo dove c’è solo una realtà, tutto è logico, forse difficile, ma assoluto.

All’epoca mio fratello studiava per diventare medico ma mia madre pensava di non poter mantenere due figli all’Università. Non voleva però nemmeno che lavorassi in campagna, così mi propose di diventare parrucchiera. Purtroppo però ho i capelli molto ricci, che all’epoca erano veramente indomabili…solo l’idea di dover lavorare con i capelli mi faceva stare male. La decisione fu rimandata e nel frattempo cominciai a frequentare il liceo scientifico di San Benedetto, dove grazie al prof Mario Illuminati nacque la mia grande passione per la matematica. Dopo il liceo mi iscrissi a Matematica a Bologna, con l’approvazione di mia madre: riteneva infatti che diventare professoressa di matematica in una scuola media o superiore mi avrebbe dato sicurezza economica e tempo per accudire i figli”.

Cosa l’ha spinta a partire per gli Stati Uniti?

“Ad indurmi a lasciare l’Italia furono un insieme di motivazioni. Non sopportavo diverse cose: il dover fare la fila per vedere il mio relatore, le “raccomandazioni all’italiana”, il tipo di ricerca estremamente localizzato che vedevo intorno a me. Così all’età di 23 anni partii per la University of Chicago senza sapere una parola d’inglese, con pochi soldi e un futuro del tutto incerto. Non avevo mai preso un aereo in vita mia, non conoscevo nessuno a Chicago, ma ero pronta a fare molti sacrifici e ad imparare più matematica possibile”.

Dopo un paio d’anni negli States ha rifiutato un posto di ricercatore che le era stato offerto a Bologna. Perché?

“Tornare in Italia significava che avrei dovuto abbandonare tutto, la mia tesi, i miei corsi, i miei amici, come se quei due anni di duri sacrifici passati negli States fossero stati un mio inutile capriccio. Dissi grazie, ma…no. Così le porte in Italia si chiusero per sempre per me.

Alcuni ani dopo, quando la Stanford e la Princeton University mi avevano già offerto un posto da Assistant Professor, mandai una domanda per un posto da professore associato in analisi in Italia, ma non fu presa nemmeno in considerazione. Ma quel rifiuto posso considerarlo una fortuna, visto che subito dopo incontrai un gruppo di giovani matematici con cui misi a punto una nuova teoria matematica che mi collocò tra i migliori matematici emergenti del momento. Contemporaneamente conobbi anche l’uomo che sarebbe diventato mio marito, all’epoca già professore ordinario al Mit. Ci sposammo in pochi mesi e l’anno dopo, nel 2001, lo raggiunsi a Cambridge, dopo aver accettato un posto come professore associato al Mit”.

Pensa che se non fosse venuta negli Stati Uniti e fosse rimasta in Italia, avrebbe avuto le stesse opportunità lavorative?

“Assolutamente no. L’Italia è in uno stato pietoso per quanto riguarda fondi per la ricerca, strutture universitarie, posti di lavoro all’Università. E’ doloroso assistere a tanto scempio e realizzare che chi avrebbe dovuto aver cura del nostro patrimonio intellettuale (il Governo) non si rende nemmeno conto di quanto abbiamo perso”.

Lei si considera uno dei cosiddetti “cervelli in fuga”?

“No, non mi considero un cervello in fuga. Ai miei tempi c’erano ancora delle possibilità per quelli che decidevano di fare carriera in Italia. Però anche se fossi single e senza figli non mi sognerei mai di lasciare il Mit per tornare in Italia”.

Recentemente la Federazione associazioni abruzzesi USA le ha conferito la medaglia d’oro.

“Questo riconoscimento è arrivato in maniera del tutto inaspettata. Mi hanno premiata con la motivazione di avere dato lustro alla regione Abruzzo con l’aver ottenuto l’incarico di professore ordinario in un istituto prestigioso come il Mit”.

La sua famiglia d’origine è ancora a Martinsicuro? Torna spesso a trovarla o ha modo di tornare nella sua città in qualche occasione?

“Tutta la mia famiglia è a Martinsicuro. Torniamo un paio di volte all’anno. I miei due bambini parlano italiano, ma se non li porto in Italia ho paura che lo possano dimenticare. Di solito andiamo per Natale o Pasqua o in estate per un periodo più lungo”.

Qual è la cosa che le manca (se c’è) dell’Italia?

“In questo periodo l’Italia non mi manca affatto, anzi sono contenta di non viverci. Sono molto preoccupata per la situazione economica, per la cultura basata sull’apparenza che è stata “predicata” e “attuata” negli ultimi dieci anni, per l’instabilità dei valori, per come le donne sono troppo spesso vittime di violenza, domestica e non. I ragazzi non vogliono più andare a scuola “perché tanto non serve a niente”, e non c’è più rispetto per la cosa pubblica. Per tutte queste ragioni preferisco stare fuori dall’Italia e sperare che lo spirito italiano, quello intraprendente, lavoratore, geniale, torni a galla e aggiusti il tutto”.