Ylenia Vesperini, nasce a Rieti nel 1992. Giurista, muove i primi passi del suo percorso professionale nei settori del marketing e della traduzione. Cultrice della lingua italiana, amante dei viaggi e appassionata di linguaggi, lingue e dialetti, che considera strumenti culturali preziosi da proteggere e veicolare per mantenere sempre il contatto con le proprie radici.  Komorebi – Riflessi di Luce e Consapevolezza è la sua prima raccolta di poesie in cui sono condensati, con lucidità ed amore per il dubbio, i primi trent’anni della sua vita

 

  • Come mai hai scelto questo titolo per la tua prima raccolta di poesie?

Komorebi è una parola giapponese che indica la luce che filtra tra i rami degli alberi di un bosco. Si tratta di un momento breve, quasi sfuggente, che si verifica soprattutto nei primi momenti dell’alba, la cui flebile luce tenta di “bucare” il buio di un bosco che si risveglia.

Ovviamente, l’immagine evocata dal titolo della mia raccolta non descrive unicamente un fenomeno naturalistico, ma spiega come nella nostra esistenza non di rado sperimentiamo periodi di buio, fragilità, solitudine, abbandono, tristezza, che ci sembrano essere intervallati da troppo pochi momenti di luce, gioia, serenità, pace. Ma è in questi momenti, seppur brevi e incostanti, che possiamo trovare il senso della nostra vita, una vita che non potrebbe essere apprezzata così tanto senza darsi la possibilità di vivere anche il dolore, di attraversarlo, di uscire da esso rinati, come irradiati da una nuova luminosa alba.

 

  • Le poesie di questa raccolta trattano tematiche diverse ma ciò che le unisce, il filo rosso è questa contrapposizione tra luce e ombre dell’animo. Ce ne puoi parlare?

Ogni essere umano si trova a fronteggiare periodi della propria vita pieni di “buio”, intrisi di sentimenti negativi, dolore, rabbia, avvilimento. Possiamo cadere innumerevoli volte per una malattia, per un lutto, per la mancanza di lavoro o ancora perché sentiamo di non riconoscerci più in una società che veicola valori diversi da quelli in cui crediamo. Le forme di isolamento possono essere molte e tutte meritevoli di essere condivise, analizzate, lenite. Non c’è una forma di dolore e buio interiore meno significativa di altre. Ciò che ci permette di superare ognuna di queste forme di oscurità, è la possibilità di trovare la giusta luce per fronteggiarle. Questa può essere rappresentata da una persona che ci supporta, da una passione cui dedicarsi, da un sogno da raggiungere, oppure possiamo essere semplicemente noi stessi, la nostra capacità di andare oltre alle cose che ci feriscono, di elevarci rispetto ad esse, anche senza avere un’ancora di salvezza che possa tirarci fuori. E in questa capacità di farsi, da soli, luce per il proprio dolore, credo risieda il vero senso della resilienza umana.

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  • Perché ti piace scrivere o meglio che cosa rappresenta per te scrivere

Come si legge nella biografia del mio libro, scrivere è per me “un bisogno quasi biologico, perché perfino respirare risulta più difficile senza spiegare la realtà con una poesia”. Fin da piccola nella mia testa si rincorreva un unico grande sogno: scrivere una mia opera letteraria. Mi piaceva l’idea di condensare un pensiero personale, renderlo collettivo perché altri potessero riconoscersi e far sì che quell’identificazione divenisse foriera di una rinascita. Il mio primo desiderio era scrivere un saggio a tema sociologico. Col tempo quel sogno si è evoluto (complice anche l’amore per gli aforismi e per la ricercatezza delle parole) ed è divenuto necessità di scrivere poesie. Pur cambiando la forma comunicativa, l’obiettivo non è mutato affatto: divulgare il mio pensiero affinché altri possano riconoscersi in esso, far girare per il mondo le mie parole, cosicché possano curare altre anime, così come hanno curato la mia.

 

  • Nella poesia “Dolore necessario” tu dici “sii ribelle dentro una normalità delle cose, sii felice anche per le tue mille offese, è il tuo dolore necessario e così deve essere, per respirare, tutto ciò che fa male ma ti fa rinascere”. Che cosa intendi comunicare con queste parole?

Spesso, viviamo delle forme di dolore di cui non comprendiamo il senso, di cui non riusciamo ad abbracciare la complessità o l’intensità. Ci sembra male gratuito che qualcuno abbia voluto inviarci senza che potessimo trarne una nuova lezione. Credo invece che nessun dolore possa dirsi inutile, fintanto che impariamo a trarre noi, attraverso un personale processo di ricerca interiore, una lezione che possa esso suggerirci. Anzi, spesso il processo di ricerca di un nuovo sé è più importante delle conseguenze materiali che ha provocato quella sofferenza. Questo non è quindi un elogio del dolore, sia ben chiaro. Tutt’altro. E’ una sorta di manifesto per aiutare chi leggerà a non identificarsi con il male, qualunque esso sia, che può aver sofferto. E’ un modo per dire che noi non siamo il nostro dolore. Siamo quello che siamo diventati o che abbiamo imparato ad essere dopo il nostro dolore.

 

  • Nella poesia “Amico” parli dell’amicizia. Che concezione hai di essa?

Ho ahimé una concezione quasi idealistica della stessa. Ritengo che l’amicizia sia una forma di amore, dei più puri, che debba essere concepita come il senso di potersi abbandonare, in piena vulnerabilità, nelle braccia di qualcuno da cui si ritiene di non venir traditi mai. Non significa essere simili, o avere idee simili. Significa godere del piacere reciproco di arricchirsi vicendevolmente della compagnia e del supporto altrui, senza secondi fini. Spesso questa visione non ha collimato con la realtà, ma nemmeno ha intaccato l’idea che io continuo ad avere di come dovrebbe concepirsi l’amicizia, nel senso più puro e pulito che esista. La poesia tratta anche un altro tema: la normalizzazione della solitudine. Ma anche il non sentirsi sbagliati nell’evidenza di essere soli, il non voler utilizzare la parola “amico” con troppa disinvoltura e superficialità, il piacere di godere anche della propria compagnia, la capacità di trovare, anche nella piena solitudine, un completamento per la propria esistenza. Io non ho mai rincorso false amicizie e ho imparato a riempire il tanto vuoto lasciato dall’assenza delle persone con molte cose che potessero dare comunque valore alla mia vita. Primo fra tutti? L’amore per me stessa.

 

  • Qual è il messaggio che vuoi comunicare con la poesia “Eden dentro”?

Delle 71 poesie inserite in Komorebi, Eden dentro è stata scritta per ultima. Il senso è: per quanta pioggia possa essermi caduta addosso, per quanti problemi abbia dovuto affrontare, per quante ingiustizie abbia dovuto sopportare, nulla potrà mai privarmi dell’amore che provo per la vita. Amerò ogni istante, consapevole di quanto, anche in natura, tutto segua un disegno preciso. E non ci sarà fastidio, dolore o smarrimento che potrà mai allontanarmi dal desiderio di restare affascinata anche dalla vulnerabile bellezza di un fiore di campagna. L’orrore non abbrutirà la mia essenza, non avrà alcun poter di plasmare la mia sensibilità. Mi viene in mente un aforisma di Stephen Littleword che condensa a mio parere questo concetto: “La felicità è una scelta quotidiana. Non la trovi in assenza di problemi, la trovi nonostante i problemi”. Non voglio ovviamente fare dell’ipocrita buonismo. È difficilissimo risalire la china delle proprie sofferenze e continuare ad andare avanti, trovare una ragione per vivere e sollevare le palpebre al mattino. Son la prima a dirlo. Ma fintanto che cercheremo ogni giorno di trovare sempre un Eden dentro, da custodire in noi, fintanto che riusciremo a crearci qualcosa di bello per cui lottare…fintanto che vivremo così, nessuna forma di buio potrà mai risucchiare la nostra luce. Basta solo trovare il proprio “Eden dentro”.

 

 

Nella poesia “Carezza” a un certo punto parli dell’attesa. Che cos’è l’attesa?

“Carezza” per me non è una semplice poesia, ma una coccola. È un modo per esprimere quanto anche un semplice tocco di una mano sulla nostra pelle possa, come un unguento speciale, sanare le nostre ferite più recondite. Può trattarsi della carezza d’amore di una madre al proprio figlio, di una persona amata verso il partner, di uno sconosciuto che cerca di ridare dignità a un volto sfigurato dagli orrori umani. Ci son carezze che fanno più bene di certe medicine. E trasmettono un senso di calore che riesce a insidiarsi negli anfratti più profondi di un cuore, spesso inaridito dal tempo e dall’odio. Ed è quel tipo di carezze che dobbiamo ricercare, di quelle mani capaci di insinuarsi negli spazi di inumanità lasciati vuoti da chi ci ha fatto del male. Chi si sente tradito dalle persone non si aspetta più nulla, ma dentro sente il bisogno umano di tornare a sentire quel bene che possa solcare la superficie della propria epidermide e, per osmosi, trasmettere il senso di una nuova dolcezza.

Indugiare in quella attesa, per quanto lunga, non è tempo trascorso invano.