SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Il calcio è uno sport in cui si gioca 11 contro 11, ma alla fine vince sempre la Germania”. Così sentenziava Gary Lineker uscendo dal “Delle Alpi” dopo la sconfitta dell’Inghilterra ai calci di rigore nella semifinale dei mondiali del ‘90 disputatosi in Italia. Eppure, nella serata del 21 luglio a San Benedetto, era presente uno di quegli uomini in grado di smentire uno degli aforismi più celebri della storia del calcio: Giancarlo De Sisti, detto Picchio.

Il perché di questo soprannome, risalente ai primi tempi in giallorosso, lo ha svelato lui stesso:picchio” in romanesco significa trottola e ciò rende perfettamente l’idea di che tipo di calciatore fosse in campo. Centrocampista di qualità e di gamba, capace di coniugare l’intelligenza tecnico-tattica (non era uno di quelli che correva a vuoto) con la velocità, vero e proprio motore della squadra e sempre nel vivo del gioco.

Gli ingredienti della “Partita del Secolo”? Prendi i due poli opposti del calcio europero, con l’Italia campione d’Europa in carica e la Germania vogliosa di riscattare la cocente sconfitta subita dagli inglesi 4 anni prima. Collocali in uno dei luoghi più impervi per giocare una partita di pallone, ad oltre 2000 metri di altitudine, presso lo stadio Azteca di Città del Messico. Aggiungi due tempi supplementari al cardiopalma, in grado di tenere incollati allo schermo un popolo intero, bambini dell’epoca inclusi, ben oltre la mezzanotte.

Così un emozionato Giancarlo De Sisti ricorda quei 120’ che hanno fatto la storia: “Eravamo reduci da un girone in cui non avevamo espresso il nostro miglior calcio, pareggiammo 0-0 contro Israele e Uruguay e vincemmo di misura per 1-0 contro la Svezia. C’era un po’ di nervosismo: da un lato la pressione di aver appena vinto il campionato Europeo, dall’altro non volevamo che finisse come contro la Corea nel ‘66. Inoltre avevamo gran parte del pubblico contro, perché ai quarti eliminammo i padroni di casa del Messico, battendoli 4-1 a Toluca. Fu con questo clima che arrivammo alla semifinale. I tempi regolamentari ad essere onesti non furono esaltanti, passammo subito in vantaggio con Boninsegna e i tedeschi si riversarono in avanti alla disperata ricerca del pari. Quando la partita sembrava ormai indirizzata dalla nostra parte, la rete in extremis di Schnellinger fu una doccia gelata per tutti, a cui seguì il gol di Muller all’inizio dei supplementari: un uno-due che avrebbe tagliato le gambe a chiunque”.

“Invece fu lì che ci guardammo negli occhi e venne fuori il gruppo – prosegue Picchio – Tarcisio Burgnich, il terzino destro, segnò un gol da rapace d’area, sfruttando un errore della retroguardia tedesca e, poco dopo, Gigi Riva trovò con una mancinata di collo l’angolino che valeva il 3-2, illudendoci ancora una volta di averla portata a casa. Tuttavia il 3-3 di Muller, con la sfera che si infilò in uno spazio millimetrico tra il primo palo e Rivera (che in quel momento si trovava sulla linea di porta per difendere su corner) ci ricordò che c’era ancora da soffrire per guadagnarci la finale della Coppa Rimet. Ci ricompattammo e un minuto dopo, con un’azione corale, lo stesso Rivera mise il sigillo definitivo sul quel match che sembrava infinito”.

Di quella partita De Sisti ricorda ogni attimo, a riaffiorare sono soprattutto le emozioni e le sensazioni provate nell’arco dei 120 minuti: “E’ incredibile come quel giorno si passò dall’Inferno al Paradiso per così tante volte nel giro di un attimo, fu un’emozione dopo l’altra. A fine partita ebbi la sensazione che avevamo compiuto qualcosa di grande e negli spogliatoi dissi che ci saremmo resi conto di ciò che avevamo fatto solo molto tempo dopo. I tedeschi ci accusavano di essere catenacciari, ma io gli chiederei piuttosto come mai si sono fatti uccellare dal piattone di Rivera al 111° minuto”.