SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Tutti gli esseri umani – o quasi – ambiscono a entrare nella storia, a essere ricordati per un’impresa, a non cadere nel dimenticatoio degli eventi che si susseguono senza tregua. Non si può certo dire che Angela Iannotta non sia riuscita nell’intento. L’ex giocatrice della Nazionale australiana di calcio femminile, oltre ad aver avuto una brillante carriera che l’ha portata fino in Giappone e in Italia, è stata l’autrice del primo gol dell’Australia maschile e femminile in un Mondiale.

È l’8 giugno del 1995 e a Västerås, in Svezia, sta per calare un’altra delle notti bianche in cui il sole non tramonta mai del tutto. Esistono crepuscoli, però, che brillano di una luce diversa, la fiamma della gloria che non affievolisce nemmeno con il passare del tempo. Ed è proprio in una serata come queste che si accende la stella di Angela Iannotta, autrice della rete dell’uno pari con la Cina, il primo gol dell’Australia ai Mondiali. La partita finisce 4-2 per le asiatiche e le “Matildas” non passano alla fase successiva, ma è comunque leggenda. Angela Iannotta però dei veri campioni ha anche l’umiltà e conserva ancora negli occhi l’immagine di quella ragazza di tredici anni che gioca a calcio per passione, sfidando tutto e tutti pur di inseguire il proprio sogno. Parlando con lei è impossibile non emozionarsi.

Angela, che effetto ti fa essere ricordata per quell’episodio così importante?

“L’anno scorso ricorrevano i venticinque anni da quel primo gol e ho fatto diverse interviste con radio e giornali australiani. È una bella emozione, perché rimarrà sempre nella storia del calcio australiano maschile e femminile. Quando ho segnato non mi sono resa conto di cosa stesse succedendo, l’ho realizzato dopo qualche anno leggendo un articolo. In ogni caso, segnare in un Mondiale è una sensazione unica, chi non ha mai giocato non può capire. È qualcosa che ti rimane dentro. Penso comunque che per quel primo gol mi chiameranno anche in occasione dei Mondiali del 2023 che saranno tra Australia e Nuova Zelanda. Vedremo, non mi dispiacerebbe fare il commento tecnico in una telecronaca”.

Come hai iniziato a giocare a calcio?

“Mi sono avvicinata a questo sport grazie ai miei fratelli Paolo e Mario, che giocavano a pallone. Anche mio padre era appassionato, mi ricordo che durante i Mondiali del 1982 facevamo le ore piccole per guardare le partite. L’Australia non partecipava, quindi tifavamo per l’Italia, viste le origini della mia famiglia. La mia carriera ha preso il via ad Albury, nello Stato del Nuovo Galles del Sud, quando avevo tredici anni. Non è stato facile all’inizio, mio padre era un uomo vecchio stampo che considerava il calcio uno sport da maschi. Devo ringraziare il mio insegnante di educazione fisica che mi permise di effettuare le selezioni per la squadra della scuola già al primo anno e che, vedendo in me del talento, andò a parlare con mio padre per convincerlo a farmi entrare nel team locale. Sono rimasta con i Melrose Park Rangers per tre anni, per poi passare all’Albury City e successivamente all’Albury United. Tutta la prima parte della mia carriera si è svolta nel posto in cui sono nata, una cittadina di quarantamila abitanti che offriva meno opportunità rispetto a una grande metropoli, anche perché negli anni Ottanta non c’erano ancora tante formazioni femminili. Sono riuscita comunque a distinguermi grazie al mio talento naturale. Ero molto veloce, quindi in attacco riuscivo a superare gli avversari e ad andare a rete. Non c’è stato un anno in cui non ho vinto uno scudetto ad Albury”.

Quando c’è stata la svolta nella tua carriera?

“Quando avevo diciotto anni ho partecipato al torneo tra Stati che si svolge ogni anno con la rappresentativa del territorio della capitale, Canberra. Lì il CT della Nazionale maggiore mi ha vista e mi ha convocata. Così è iniziata la mia avventura con le ‘Matildas’, che ha raggiunto i suoi picchi più alti con i Mondiali del 1995 in Svezia e del 1999 negli Stati Uniti. Poi ho smesso con la Nazionale, non riuscivo a conciliare tutto, ero continuamente in viaggio e in quegli anni mancava il supporto economico della Federazione. Stavano venendo fuori anche nuove giocatrici più giovani e molto forti”.

Quando ti sei trasferita all’estero per giocare?

“Il mio primo contratto con una squadra straniera è stato nel 1992, quando sono venuta in vacanza in Italia con mio fratello Paolo a trovare i miei parenti in Toscana e mio zio mi ha organizzato a sorpresa un provino con l’Agliana, neo promossa in Serie A, con cui ho vinto lo Scudetto insieme a Carolina Morace nel 1995. Sono rimasta fino al 1996, quando ho firmato con la Panasonic Bambina, un team giapponese di Osaka. Sono stata ingaggiata durante i Mondiali del 1995. Purtroppo sono rimasta lì poco tempo. Mi sono rotta il perone prima di partire, dopo il recupero mi sono trasferita, ma nel giro di sette mesi ho avuto di nuovo lo stesso infortunio, perché non era stato curato bene. Ho dei bellissimi ricordi legati a quell’esperienza, sia personali sia professionali, peccato sia durata poco. Dopo il Mondiale del 1999 sono tornata in Italia per giocare con il Picenum di Castel di Lama. Abbiamo fatto la Serie A, la Serie C e la Serie B. Poi il Presidente Antonio Lucidi mi ha chiesto di rimanere come allenatrice e ho accettato. Siamo andati avanti fino al 2010”.

Quando hai iniziato, ti saresti aspettata di arrivare così in alto?

“All’epoca il sogno di tutte le ragazze che giocavano a calcio era entrare nella Nazionale ed entrarci per me è stata una bella soddisfazione. Oggi è diverso, si punta giocare per esempio in una squadra come il Chelsea femminile o la Juventus. Sono cambiate molte cose, gli allenatori sono più preparati, la preparazione fisica e tecnica inizia da bambine. Io in quegli anni ho dovuto lavorare molto su me stessa, anche da sola”.

A che punto è oggi il calcio femminile?

“C’è molto da fare. In Australia è lo sport femminile più seguito, in Italia ancora bisogna lavorare sodo. Innanzitutto è necessario che si passi quanto prima al professionismo, come in Francia, Olanda e altri Paesi europei e non. Una prima svolta c’è stata sicuramente quando hanno obbligato le società maschili a creare anche una squadra femminile. Poi ci sono stati dei passi avanti grazie alla televisione, ai Mondiali in Francia, a internet. Le giocatrici, sia italiane sia straniere, vengono riconosciute per strada, sono seguite sui social. Anche gli ingaggi e gli stipendi stanno aumentando, purtroppo non per tutte le società. In Italia le squadre di bassa classifica del Campionato di serie A non riescono a garantire un salario dignitoso, tanto che molte ragazze sono costrette anche a lavorare ed è un grosso impegno. Giocano per passione e io so bene cosa vuol dire, perché noi non prendevamo una lira in Nazionale, ma avevamo un fuoco dentro che ci spingeva ad andare avanti. Nel maschile tutto questo non c’è, ormai è un business”.

Come giudichi la situazione al livello locale?

“Siamo molto indietro nella nostra zona. Manca il calcio femminile nelle scuole, mancano le società. Se una ragazza è forte deve trasferirsi a Roma, Milano, Torino, perché qui non ha possibilità. In generale in Italia non c’è la cultura del calcio femminile e qui questo è ancora più evidente. C’è tantissimo lavoro da fare”.