Il continuo ricorso a governi tecnici in Italia, sta diventando davvero il segnale di una situazione preoccupante. Che poi i governi “tecnici” siano affidati sempre a rappresentanti delle Banche Centrali e del mondo della finanza (Ciampi, Dini, Monti, Draghi) da Presidenti della Repubblica evidentemente bene avvezzi a scegliere velocemente e ad imporre, fa capire come non vi sia nulla di tecnico.

In realtà, vieppiù dopo il 1992 e definitivamente dopo il 2011, non vi è più distinzione tra governo tecnico e governo politico (in questo Conte è stato il definitivo approdo della doppia funzione: presidente gialloverde con un programma già scritto, poi presidente giallorosa, non eletto, non iscritto, assente nella discussione politica anche di quartiere prima del 2018).

I governi e i parlamenti che eleggiamo possono discutere sui barconi, sul matrimonio omosessuale, sulla prescrizione, sulla legalizzazione delle droghe leggere. Tutti aspetti molto importanti, ci mancherebbe, per i quali vale la pena di discutere e appassionarsi. Temi che danno qualità ad una democrazia parlamentare.

Non possono però discutere della ciccia. La politica macroeconomica non appartiene più al nostro paese. Il nuovo ordine costituzionale di fatto a cui si riferiva l’ex Ministro e Presidente della Banca d’Italia Guido Carli (“un mutamento costituzionale“) a proposito del Trattato di Maastricht (1992) non va discusso. Prova ne è che sia Napolitano che Mattarella hanno accettato di ogni, ma hanno espressamente indicato chi dovesse essere il Ministro dell’Economia (si pensi all’incredibile veto su Savona).

Dal 2011 il rafforzamento delle misure di austerità porta la firma viva di Mario Draghi. Dopo la svendita dell’industria di Stato negli anni ’90, banchetto pregiato forse secondo al mondo solo all’assalto degli oligarchi nella Russia post-comunista, Draghi è stato presidente di Bankitalia dopo l’abituale passaggio alla Goldman Sachs. E da qui è andato alla presidenza della Bce.

Nel 2011, al momento della consegna del testimone da Trichet, i due indirizzano al governo italiano una lettera con le misure da prendere. Berlusconi viene cotto sulla graticola dello spread oltre che degli scandali, la Bce all’epoca non muove un dito (se si comportasse ancora così l’eurozona finirebbe il giorno dopo) e arriva Mario Monti, accolto dalla fanfara.

Fu l’apogeo del neoliberismo: il suo culmine, ma anche il suo crollo. Oggi non ci crede più nessuno, i dati empirici sono troppo evidenti, i risultati economici e sociali anche peggio. Il neoliberismo oggi è diventato una religione senza Dio e senza riti.

Monti, poi Letta, Renzi, Gentiloni e Conte (quest’ultimo un po’ meno fermamente soprattutto a causa della pandemia) hanno di fatto seguito passo passo le indicazioni di Draghi in quella famosa lettera, così come le raccomandazioni della Bce quando Draghi era presidente.

Liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali“; “privatizzazioni su larga scala dei servizi pubblici locali“; “contrattazione salariale a livello di impresa” (addio contratti nazionali, ovvero); “accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti“; “misure di correzione del bilancio“; “intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico“; “clausola di riduzione automatica del deficit pubblico“; “indebitamento messo sotto controllo“; “abolire le Province“.

Fu questo il “pilota automatico“, che poi Draghi ammise di trovare inserito in Italia qualunque fosse il governo (era il 2013, clicca qui). Il programma della lettera Draghi-Trichet è stato il programma dei governi dal 2011 in poi, con l’unico piccola variazione nel Conte 1 (reddito di cittadinanza e quota 100 consentiti in un quadro delle misure più austere mai prese con deficit al 2%) e Conte 2, causa pandemia.

Nel frattempo, come afferma l’economista Warren Mosler, Draghi ha sicuramente salvato l’euro, ma non ha lasciato superstiti. E il salvataggio dell’euro è stato usato come arma di ricatto verso gli Stati per applicare le misure del liberismo più sfrenato: ad esempio il taglio di salari e stipendi (clicca qui il nostro articolo), mentre in Grecia la Banca Centrale guidata da Draghi si è posta per la prima volta nella storia come un creditore nei confronti di un proprio stato, portando al collasso il primo governo Tsipras.

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Oggi la situazione è grandemente cambiata a causa del Covid-19. La Bce non può più chiudere i rubinetti, venendo meno al suo ruolo istituzionale pensato da Francoforte, semplicemente perché l’eurozona crollerebbe subito: hanno cioè pensato un sistema che per definizione è incapace di funzionare. Complimenti ai competenti.

La pandemia ha costretto i governi e la Commissione a “sospendere” il patto di stabilità, con deficit sempre meno della metà rispetto agli altri paesi, ma tre o quattro volte superiore al limite superstizioso del 3%.

Draghi è stato uno dei protagonisti di questo cambio di paradigma: la sua lettera al Financial Time nello scorso marzo è, nei fatti, un de profundis per l’ordoliberismo tedesco.

Draghi ha saputo usare occhiali nuovi per una situazione nuova. Nel frattempo, gli Stati dell’Eurozona hanno sottoscritto (ma non ancora approvato…) il Recovery Fund: non più austerità in cambio di riforme, ma prestiti in cambio di riforme. E’ il nuovo strumento di controllo politico continentale: nel caso dell’Italia, denaro a fondo perduto per 2-3 miliardi l’anno (compensato dai 7-8 miliardi di fondo perduto dall’Italia alla Ue) e 20-25 miliardi di prestito all’anno. Tutto possibile e abituale con l’emissione di titoli di stato, ma subordinato ad una serie di condizioni strettissime.

Condizioni non solo e non tanto sui prestiti, ma sull’intera democrazia italiana. La Commissione Europea farà le sue raccomandazioni e chi non lo rispetterà si vedrà bloccare i fondi. Impossibile per qualsiasi governo uscire fuori dal “pilota automatico“.

Figuriamoci se lo sarebbe stato per il governo Conte. Al quale si può volere tutto il bene di questo mondo, ma che ha avuto il difetto di oscurare questo passaggio e trasformarlo in mera comunicazione priva di contenuti. Il no al Mes e l’entusiasmo per il Recovery Fund non è razionalmente comprensibile e nasconde, nei fatti, l’incapacità di discernere la politica dalla propaganda.

Mario Draghi ha alle spalle tre decenni di lacrime e sangue, ma sicuramente di queste dinamiche è perfettamente consapevole. Non sarà un nuovo Mario Monti, sia perché il lavoro di Monti si è concluso e perdura (l’Italia pratica ancora austerità interna, deflazione salariale al fine di mantenere bassi i prezzi delle merci e favorire l’export a discapito dell’import, e in questo modo è in equilibrio sull’orlo del precipizio senza sprofondarci), sia perché Monti rappresenta la quintessenza del bocconiano liberista, ideologicamente convinto della bontà del libero mercato e del male assoluto del deficit (le sue dichiarazioni oscene sulla cancellazione dei ristori a favore delle imprese chiuse sono esattamente all’opposto rispetto a quanto scritto da Draghi a marzo, per capirci).

Draghi ha studiato con Federico Caffètradendolo poi, certo, sulla via Amerikana – ed è un avversario con cui confrontarsi, non un professore da formulette matematiche come Monti o un confuso venditore al miglior offerente come Conte e in parte Renzi. 

Si spera che al limite Draghi attuerà la strategia della rana bollita, seguendo passo passo le indicazioni della Commissione: ci sarà sicuramente una accelerazione sulla privatizzazione dei servizi locali, ultima “ciccia” che rimane in Italia (non pensiamo che in preda di un tic da anni ’90 pensi a disfarsi di Fincantieri o Eni).

Il problema, semmai, è la debolezza dei partiti, nei quali non si pratica il pensiero critico e che, tra taglio fondi e la mannaia del taglio dei parlamentari (digerito da Pd e Leu in cambio del mantenimento in vita del Conte 2 per pochi mesi: un disastro), non sono in grado di svincolarsi dalla democrazia morente a cui concorrono. Pensate se quello che sta avvenendo in Italia si osservasse in Germania, Francia, Inghilterra ma persino in Spagna. Non sarebbe possibile. La dignità nazionale non lo consentirebbe.

In questo, essere ridotti come una nazione africana indebitata dal Fondo Monetario o dalla Banca Mondiale senza neanche il supporto di concerti colorati di Bono e Jovanotti, riesce difficile disperarsi davvero per l’arrivo di un Draghi. Che potrà, chissà, rivelarsi peggiore, ma almeno lo farà con il cinismo di chi punta ad essere il successore di Mattarella.