I fatti li conosciamo tutti. E’ la notte tra il 21 e il 22 dicembre 2019. Pietro Genovese, ventenne alla guida del proprio Suv, di rientro da una cena per festeggiare il ritorno dall’Erasmus di un amico, mentre è diretto in un locale sulla Via Flaminia a Roma, investe e uccide due sedicenni lungo Corso Francia. Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli attraversavano la strada correndo mano nella mano, non si capisce ancora bene se sulle strisce o no, ma molto probabilmente quando il semaforo era rosso per i pedoni.

Pietro Genovese risulterà positivo all’alcol test e anche al narco-test (il che non vuol dire che fosse sotto effetto di stupefacenti in quel momento, avendoli potuti assumere nei giorni precedenti). Nei giorni successivi verrà arrestato e messo ai domiciliari, perché avrebbe potuto ripetere il fatto. I difensori di Pietro Genovesi, a due settimane dalla tragedia, chiedono l’annullamento della misura cautelare e rinunciano all’udienza davanti ai giudici del Tribunale del Riesame. Si affidano alle indagini della procura per dimostrare l’impossibilità di evitare l’impatto.

Sulla gravità del fatto, penso non sia necessario soffermarsi. La vita di due giovani adolescenti stroncata da un ventenne che, indipendentemente dal fatto che fosse sotto effetto di stupefacenti o no – cosa che non si potrà mai dimostrare – di sicuro aveva bevuto più del normale. E si è messo lo stesso al volante. Eppure, poiché vivo a Roma ormai da 4 anni, e poiché questa vicenda mi ha molto turbato, vorrei provare ad offrire una cornice più completa del fatto. 

Perché vi dico la verità. 

La prima cosa che ho pensato dopo aver sentito la notizia dell’incidente è stato: “Se fossi passata io di là con la macchina? In quel tratto in quel momento? Senza aver bevuto e fosse stato verde al semaforo per me, le avrei viste? Le avrei evitate?”. Perché quello è un tratto pericoloso e a scorrimento veloce. E oggi gli incubi con cui Pietro Genovese dovrà convivere tutta la vita, chissà, forse avrei potuto averli io.

Da quando vivo a Roma, mi capita più spesso di muovermi a piedi che in macchina. Per evitare il traffico, ma, soprattutto, per il problema del parcheggio. Lavoro in un’Accademia distante circa 4 chilometri da casa mia e spesso preferisco passeggiare che prendere i mezzi. Quindi la vita da pedone la conosco molto bene. Sia chiaro. Non è un vita facile. Perché a Roma sulle strade vige una anarchia così radicata che a tratti sembra inevitabile.

Spesso i semafori non si guardano proprio, perché il rosso per i pedoni non sempre segue al giallo, perché tra il verde ed il rosso spesso passa troppo poco tempo ed è quasi impossibile non trovarti in mezzo alla strada quando scatta. In pienissimo centro il discorso è diverso, addirittura il giallo mostra i countdown dei secondi che hai ancora a disposizione per attraversare, ma per tutto il resto di Roma, che è uno spazio non proprio limitato della città, no. Così ci si è abituati da ambo le parti al fatto che, in prossimità di un semaforo, si guarda bene e poi eventualmente si attraversa. Rosso o verde che sia. Correndo, camminando, mano nella mano, da soli. E’ così.

Non saprei contare le volte che le auto si sono fermate al semaforo per far passare i pedoni nonostante fosse verde per loro, perché i pedoni erano sulle strisce. L’altro giorno ho visto addirittura una guida turistica nei pressi del Vaticano, incitare il suo gruppo a correre per attraversare nonostante fosse rosso, facendo inchiodare un taxi in arrivo. Certo di giorno tutto è più facile. C’è luce, raramente gli automobilisti sono sbronzi alle 12 del mattino, il traffico è intenso quindi è quasi impossibile sfrecciare sulla strada. Ma di fatto l’abitudine dei pedoni è quella.

Una abitudine dettata da una serie di inefficienze, vero, ma che si è ormai consolidata e che gli automobilisti conoscono bene. A Roma, dove chiunque nel traffico suona per ogni cosa, il tassista di cui sopra, non solo non ha toccato il clacson, ma non  ha neanche imprecato contro i turisti in corsa per esempio. E questa è una cosa assai rara.

Pietro Genovese ha commesso un errore che credo non si perdonerà mai: quello di essersi messo alla guida con quel tasso alcolemico. Questo indubbiamente pone mille dubbi su cosa sarebbe successo se non avesse bevuto: le ragazze si sarebbero salvate? Saremmo oggi a parlare di una tale tragedia? Non lo sapremo mai.

Ma io vorrei invitare tutti a pensare in modo più costruttivo. Questo fatto di cronaca mi ha fatto molto riflettere sulla leggerezza con cui l’abitudine ad infrangere le regole, ci faccia vivere come normali degli atteggiamenti che dovrebbero essere invece stigmatizzati e la cui stigmatizzazione dovrebbe, però, essere agevolata dal sistema. Non credo che Pietro Genovese fosse l’unico quella sera a passare per Corso Francia dopo aver bevuto, come non credo che Gaia e Camilla fossero state le uniche, quella sera, a correre sfidando la sorte sul quel tratto di strada. Ma un triste destino ha incrociato tragicamente i due fatti.

Oggi genitori e adolescenti non si sentono più sicuri e hanno presentato una petizione per alzare un ponte pedonale in quel tratto. Personalmente la ritengo una reazione giustificata e mi auguro vivamente che venga presa in considerazione. Perché ciò che mi sento di dire, è che questa storia ha un volto che va oltre il fatto di cronaca. Un volto che riguarda contemporaneamente l’amministrazione cittadina e la disciplina del cittadino. Almeno io la vedo così.