Come si fa a mettere in discussione colui che sta facendo di tutto per ritardare il momento decisivo, ben sapendo che soltanto lo scorrere del tempo può smorzare l’impatto della deflagrazione?

Luigi Di Maio nella giornata di mercoledì 30 maggio chiederà agli iscritti del M5S di valutare il proprio ruolo come “capo politico” degli stellati. Quesito, modi e impostazione del giorno del giudizio sono quelli che sono, ma non è questo il punto.

E non sono neanche i 16 punti percentuali persi in 15 mesi, risultato in base al quale nessun leader di partito al mondo sarebbe rimasto 5 minuti in più sulla sua sedia. Nell’odiato Pd Veltroni si dimise per una sconfitta alle elezioni regionali in Sardegna, ad esempio. Il punto è che sulle spalle del giovanissimo Di Maio (32 anni: capo del partito, Vicepresidente del Consiglio, Ministro dello Sviluppo e del Lavoro) è stato caricato un compito che in pochi, inebriati dall’enorme successo del 2018, hanno colto: ovvero nascondere, smussare, disinnescare la Bomba che è dentro la scatola chiamata M5S, confezionata dalla Casaleggio Srl e a Di Maio ceduta per tempo da Beppe Grillo.

Ma cerchiamo di capire perché.

Quello che è accaduto il 26 maggio, ovvero il più repentino crollo politico che si ricordi – Renzi ci ha messo quattro anni per ottenere risultati equiparabili – era esattamente pronosticabile, se non nella dimensione e nei tempi, ma almeno nella traiettoria, e già da qualche anno. E senza essere dei Renzi, che ne gioiscono scioccamente. Era chiaro che durante la campagna elettorale del 2018 Casaleggio Srl abbia pensato ad una strategia di massimizzazione del consenso (bene) senza però valutare cosa sarebbe accaduto, a fronte di certe premesse, dal 5 marzo 2018 (male).

Il M5S contiene in sé dei meccanismi di costruzione del consenso talmente radicati che per evitare i loro effetti sul Movimento stesso sarebbe necessaria una trasformazione così radicale che il risultato sarebbe una cosa diversa dal M5S. Un suicidio, ma per sopravvivere.

Casaleggio Srl e Di Maio questo, credo, lo sappiano, ma per riuscire a gestire la metamorfosi hanno bisogno di tempo. Come un’automobile costretta ad una manovra complicata: se la fa di fretta si schianta.

Il primo e basilare meccanismo di autodistruzione è la non-definizione politica. Dirsi e continuarsi a definirsi “né di destra né di sinistra” può servire per attrarre il consenso dei disimpegnati o disillusi, ma è una considerazione così banale da meritare pochi approfondimenti. Oggi, per fortuna, sono molti meno i grillini che credono davvero a questa autodefinizione: ma prima delle Politiche del 2018 milioni di italiani si erano convinti che un governo M5S-Lega o un governo M5S-Pd sarebbero stati equivalenti, “perché noi faremo quello che vogliono i cittadini”, era una frase di tipo ricorrente. L’esperienza, ovviamente, ha dimostrato che così non è. Le retromarce della campagna elettorale appena conclusa ne sono la prova.

La non-definizione politica ha portato con sé l’altro elemento di autodistruzione: la vaticinata autosufficienza del M5S. Ovvero un partito che non si allea mai con nessuno – e dunque in questo alimentato da un grado di totalitarismo interno – e che quindi o governa da solo o non governa. Illusione alimentata da leggi elettorali incostituzionali (l’ultima gliela voleva cucire addosso sempre il solito Renzi) alle quali il M5S si era conformato. Invece la realtà è diversa.

E qui si arriva al punto. Il 4 marzo 2018 ha innestato questi meccanismi autodistruttivi che, prima, risiedevano latenti dentro la scatola M5S. Poiché non vi è stata autosufficienza per governare, le scelte che il giovane Di Maio aveva erano due: o fare il Beppe Grillo e dire “siccome gli italiani non ci hanno dato la maggioranza assoluta e per noi gli altri partiti sono tutti, indistintamente, il Male Assoluto, allora saremo all’opposizione di qualunque altro governo si formerà”; oppure tentare, in ogni modo un accordo per governare.

(Non è un caso che i Richelieu dei 5S come Travaglio e Scanzi, vista la mala parata e l’assenza di soluzioni che si prospettano, chiedano ai 5S di tornare bambini e consegnarsi a prescindere all’opposizione: ovvero un disimpegno costante, un ritorno eterno all’adolescenza, un regresso paraculo).

La scelta è stata la seconda per una serie di motivi. Perché l’opzione alla Beppe Grillo non era praticabile: il M5S sarebbe collassato all’istante, sia per l’insurrezione di centinaia di parlamentari costretti a tornare a casa dopo pochi mesi, sia perché non esiste che un partito col 32% dei voti si candidi automaticamente a non governare per sempre.

Dunque Di Maio e la sua smania governista ha già salvato il M5S da morte sicura. Così facendo, però, ha spento una miccia e ne ha accesa un’altra: con la differenza che la deflagrazione, invece che immediata, è diventata differita, e il 26 maggio è stato un passaggio intermedio. Ebbene fino al 4 marzo 2018 chiunque, votando M5S, si esentava di responsabilità sia politiche (destra/sinistra) ma anche da simpatie o antipatie con gli altri partiti. E’ chiaro che alleandosi con la Lega, ad esempio, una parte dell’elettorato del 4 marzo va perso automaticamente e lo stesso sarebbe accaduto in caso di accordo con il Pd.

Ma c’è di più: dopo il 4 marzo un voto ai 5S può significare in prospettiva una alleanza con Lega, Pd o con chiunque altro, coi sovranisti o con gli europeisti, perché non avendo vincoli ideologici chiunque può essere utile alla causa. Dunque un elettore meno che smaliziato adesso vorrà capire bene qual è il quadro delle possibili alleanze. Questo impone al M5S di collocarsi politicamente, secondo gli schemi destra/sinistra e sistema/antisistema: a nessuno è consentito occupare tutte e quattro le caselle contemporaneamente pena la perdita di credibilità.

Ma collocarsi politicamente in questo schema significa anche creare una propria organizzazione interna che non può iniziare e finire negli uffici della Casaleggio Srl e nello staff di comunicazione a sostegno di Di Maio e delle pagine social. Significa, cari amici 5S, diventare un partito vero. Significa, infine, aver bisogno di denaro per sostenere le spese dell’organizzazione e, possibilmente, la formazione dei militanti. Significherebbe, infine, definire in maniera precisa un proprio programma di politica economica riconducibile alle grandi famiglie culturali della contemporaneità e attorno a questo definire una visione del mondo che non può essere buona per tutto e tutti, ma che preveda vincitori e sconfitti (fosse anche quell’1% di cui parlava il movimento Occupy Wall Street).

In sintesi, e poi di seguito alcune conclusioni. Per sopravvivere e non liquidarsi lentamente, il M5S deve attuare una riorganizzazione che preveda:

a) una sua collocazione politica il più netta possibile secondo gli assi sinistra/destra e sistema/antisistema;

b) un chiaro perimetro di alleanze possibili o auspicabili e di alleanze impossibili. Ad esempio la grande coalizione europea tra Popolari e Socialisti è una alleanza in partenza innaturale ma possibile, mentre i Socialisti scomparirebbero all’istante se si alleassero con l’estrema destra, o i Popolari con i comunisti. Il M5S oggi è alleabile con tutti e questa è una contraddizione da risolvere al più presto pena la perdita di credibilità.

c) la creazione di strutture intermedie solide e riconosciute, ovvero la trasformazione da movimento verticistico in partito democratico e non solo cliccabile.

Il M5S è già fortemente cambiato in questi anni, e l’accordo di governo con la Lega lo comprova. Tuttavia Casaleggio Srl e Di Maio stesso, invece di presentare l’accordo come un passaggio alla maturità del Movimento, lo hanno edulcorato con terminologie insostenibili: “Non è un’alleanza ma un contratto di governo” hanno ripetuto all’infinito, come se fossero antichi notabili attenti a nascondersi dietro alle parole.

Ma la trasformazione che lo attende, semmai sia chiara questa necessità, cambierà il M5S in M5S 2.0. Sarebbero due cose così diverse da non trovare alcuna relazione se non nella contiguità del gruppo dirigente, ovvero Casaleggio Srl, Beppe Grillo e pochissimi altri. Sinceramente non so quanto senso possa avere il ribaltamento delle proprie convinzioni in maniera così radicale, e a cosa sarebbe utile. In teoria sarebbe meglio che nuove forze riescano a portare con loro nuove idee, e non vecchie forze arrivare a smentire se stesse per sopravvivere.

E’ anche possibile, infine, che la politica degli Anni Venti a venire abbia bisogno anche di partiti come l’attuale M5S, usa e getta. Ovvero partiti che trovino loro bandiere comunicative, puntino tutto su di esse per imporsi all’attenzione collettiva e massimizzino il risultato senza alcun tipo di orizzonte e di relazioni con le tradizioni culturali del passato. Contento chi vi partecipi.

Due esempi per concludere su due bandiere comunicative del M5S. Uno è il Reddito di Cittadinanza, l’altro il divieto di coprire più di due ruoli politici consecutivi.

La fissazione sul Reddito di Cittadinanza è stata così ossessiva da divenire, questa sola misura (per altro criticabile non solo da destra, come avvenuto, ma anche da sinistra per altri motivi), l’intera politica economica del M5S. Realizzato il quale, il Paradiso sulla Terra sarebbe finalmente disceso. Infatti Di Maio e i suoi, in maniera tragica e in totale assenza di critiche dal proprio popolo, hanno avuto l’imperizia di brindare al balcone e di gridare “Abbiamo abolito la povertà”. Pacchianate che nemmeno Renzi nei suoi momenti d’oro si è mai avvicinato a commettere. Ma se il Reddito di Cittadinanza è questo, e loro hanno detto che questo è, davvero la politica economica del primo partito italiano, vaticinata dallo stesso come rivoluzionaria, può ridursi a così poca roba?

Sul limite al doppio mandato. Quando Di Maio è venuto in visita ad Ascoli gli ho proprio chiesto: “Nel Piceno su 21 comuni il M5S si presenta soltanto in due, mentre in precedenza erano almeno una decina i consigli comunali dove eravate presenti“. Al di là della risposta politichese, la domanda sottolineava il vero elemento di crisi del M5S (e non conoscevo i risultati del 26 maggio). Un partito che è al governo, ottiene il 40% e elegge tre parlamentari in una piccola provincia, non può vedersi disintegrare la base nel giro di un mandato amministrativo.

E Di Maio dovrebbe sapere perché i 5S della base non si ricandidano. Per questi motivi: perché fare due mandati da consigliere comunale di opposizione è un lavoro difficile; perché costa denaro e tempo (altro che politica per arricchirsi e rimborsi); perché molta base è abbandonata a se stessa; perché dopo aver fatto due volte il consigliere comunale di opposizione il M5S distrugge l’esperienza maturata e non consente altre candidature, così molti, avendo capito come si gioca la partita e quanto costa, preferiscono stare fermi un turno e puntare ad una candidatura in Consiglio Regionale o direttamente in Parlamento.

Come si risolvono questi problemi? Diventando un partito. Dunque uccidendo la propria (presunta) anima.

Nessuno tocchi Luigi Di Maio. Ma che colpa può avere lui? Per favore, salvatelo.