Era il luglio del 1981 e avevo appena compiuto sette anni ed ero in vacanza a Montegallo, quel piccolo paesino adesso gravemente ferito dal terremoto che si affaccia di fronte al Monte Vettore. La sera, dopocena, se non c’era altro da fare (e non c’era quasi mai altro da fare, anche se ricordo una serata occupata da un concerto di Donatella Rettore, che all’epoca faceva furore), si camminava fuori dal centro di Balzo di Montegallo fino ad un punto in cui le montagne vicine generavano un’eco.

Ecco allora che queste famigliole e qualche residente si incamminavano, in una strada del tutto priva dal transito delle automobili, tra lucciole e cielo stellato, fino al punto in cui i bambini si potevano sfogare urlando contro la montagna oscura di fronte e prodursi in grida che spesso venivano riflesse con divertimento per tutti. Poi si tornava indietro.

Durante la passeggiata il modo preferito per trascorrere il tempo, oltre che chiacchierare, era cantare. Ricordo precisamente che erano con noi anche almeno due famiglie romane, perché m’ero innamorato come ci si innamora a sette anni di una bambina che aveva la mia età o un anno di meno, ma i miei sogni d’amore si infransero, se non erro, proprio la sera del concerto della Rettore perché ci mettemmo a ballare assieme e io forse combinai qualche pastrocchio e allora iniziò a dirmi che ero un pappamolla. Ma c’erano sicuramente altri forestieri o residenti, perché il gruppo di camminatori era abbastanza numeroso.

Capitava di ascoltare le canzoni più disparate, in quelle camminate. E andavano per la maggiori i canti popolari, più facili da intonare in coro. Magari Quel mazzolin di fiori, oppure Sul ponte di Bassano, oltre magari ai pezzi più orecchiabili degli Anni Sessanta. Sicuramente tra quelle canzoni c’era anche Bella Ciao.

Ora, un gruppo di mamme in vacanza con dei monelli terribili che scorrazzano in una strada priva di illuminazione tra le montagne dei Sibillini cercando di catturare le imprendibili lucciole, non possono sicuramente essere assimilate a temibili sovversivi comunisti. Eppure si era nel 1981, un anno sanguinoso specialmente per San Benedetto, per questioni legate al terrorismo rosso.

Ma io ero un ignaro bambino sambenedettese di sette anni anni in vacanza fra le montagne come Heidi e Peter e non ne sapevo nulla, e quando si intonava Bella Ciao ero rapito dal ritmo vivace senza capire bene a cosa si riferisse il testo. E nessuna di quelle mamme trentenni dava a quella canzone un significato politico. Era una bella canzone antifascista, da cantare a squarciagola perché era la canzone della Liberazione dell’Italia dall’invasor. La cantavano senza problemi e magari poi votavano democristiano, comunista, socialista, repubblicano.

Insomma non si doveva essere particolarmente ideologizzati, per cantarla. Era un patrimonio comune. Era il patrimonio comune e popolare degli italiani liberati e vissuti, tra tante difficoltà certo, nei decenni del progresso dell’Italia Costituzionale e Repubblicana.

Ma tutto questo, un bambino di sette anni che cercava di acchiappare le imprendibili lucciole, non lo sapeva. Quel bambino cantava Bella Ciao, perché gli piaceva come piaceva a tutti.

Quasi quarant’anni dopo, nella mia città, durante le celebrazioni della Liberazione, vengono eseguite musicalmente Il Piave Mormorò per i caduti della Prima Guerra Mondiale, l’Inno di Mameli per ricordare i caduti nella Seconda Guerra Mondiale, e l’Inno della Marina Militare per ricordare i caduti in mare.

C’è quasi la paura di dichiararsi quel che si è (era?), naturalmente italiani e antifascisti. Aridatece Bella Ciao, fateci essere leggeri il 25 aprile. Aridatece quell’Italia.