Di Alessandro Maria Bollettini

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Mauro Colarossi è dallo scorso 21 settembre il nuovo Comandante della Capitaneria di Porto di San Benedetto. Con questa intervista Riviera Oggi cerca di conoscerlo meglio.

Quali sono le sue impressioni dopo circa due mesi di residenza? Ha deluso o rispettato le sue aspettative?

Siamo in linea con quello che mi aspettavo, mi piace dichiararmi un adriatico, visto che sono di Pescara ed anche una gran parte della mia vita lavorativa, se escludiamo le ultime attività a Roma, si è svolta su questo versante, per cui conosco bene queste realtà. Immaginavo di trovarmi in un ambiente positivo, collaborativo e sereno, diciamo che la parola d’ordine è appunto: serenità”.

Come sa a San Benedetto il porto è un fulcro fondamentale della vita economica e sociale della popolazione, quindi il Comandante riveste un ruolo di un certo rilievo; ci aiuti a conoscerla meglio: quali sono state le fasi salienti della sua carriera?

“Ho cominciato nel 1994, quando la mia prima destinazione è stata Ortona, che tra le altre cose era anche la città dove avevo frequentato le scuole superiori, presso l’Istituto Nautico. All’epoca non era ancora una Capitaneria di Porto ma solo un Ufficio di Circondariale Marittimo e di fatto ero l’ufficiale in seconda nonostante fossi appena uscito dall’Accademia. Lì ho in qualche modo imparato il mestiere e sono stato impegnato per due anni. Dopodiché sono andato su una vedetta di Manfredonia tra il 1996 e 1997 e fui coinvolto in una delle prime emergenze immigrazione, quella volta dall’Albania, e fummo schierati al Porto di Brindisi. Dopo il periodo di formazione in Accademia mi sono trovato ad Ancona, dove ho trascorso un periodo lungo della mia carriera e dove mi occupavo di pesca, visto che il capoluogo marchigiano ha da sempre grande tradizione ed anche allora aveva più di 300 unità pescherecce e ho imparato a conoscere a fondo questa materia”.

Quindi?

“Dopo questa esperienza ho avuto il comando ad Otranto, successivamente alla quale sono andato di nuovo in Accademia a Livorno, ma questa volta come docente. Ed è dopo questa esperienza che sono andato a Roma, prima presso il Comando Generale, poi presso il Ministero delle Politiche Agricole, dove ho continuato ad occuparmi di questo settore. Alla fine di questo percorso sono finalmente arrivato a San Benedetto”.

Nelle settimane scorse si è parlato degli 1,7 milioni di euro stanziati per il dragaggio dell’ingresso del porto e si è paventata l’ipotesi che 20 mila metri cubi di sabbia possano essere destinati al raddoppio della cassa di colmata per la creazione di una sorta di “seafront” pubblico. Lei cosa ne pensa?

“Io la considero soprattutto per l’aspetto che mi compete, legato alla responsabilità che ho soprattutto per quanto riguarda la sicurezza di navigazione. È indubbio che questa operazione era importante farla, perché dobbiamo garantire un ingresso ed un’uscita dal porto quanto più sicuri possibile, ma non solo, c’è anche la possibilità di sfruttare questo porto al massimo delle sue proprie potenzialità. È un problema tipico un po’ di tutti i porti dell’Adriatico quello dell’insabbiamento, non è un problema specifico di San Benedetto ed anzi ci sono realtà che sono un po’ più complesse, ma chiaramente questo richiede un livello di manutenzione tale che consenta in qualche modo di poter usufruire del porto al massimo delle sue possibilità”.

In che modo si arriva a questa decisione?

“Il problema più grave in queste situazioni non è neanche il reperire soldi, ma più che altro il dialogo necessario con tutte le amministrazioni che sono fortemente coinvolte e che hanno la responsabilità di questo tipo di operazioni. Si tratta dell’Autorità di Sistema Portuale e i Comuni rivieraschi, oltre ovviamente alla Regione. Una delle problematiche più importanti è quella del ricollocamento delle sabbie di risulta, che se sono di categoria A possono essere utilmente impiegate anche per il ripascimento degli arenili o delle aree marittime, ma se hanno delle categorie superiori, come B o C, contenenti cioè elementi potenzialmente inquinanti, presentando quindi una non compatibilità con le sabbie utilizzabili per i ripascimenti, potrebbero avere una diversa ricollocazione. Quello che mi è parso essere emerso negli incontri tecnici che si sono avuti recentemente con l’Autorità di Sistema Portuale e con il Comune è la volontà di individuare una soluzione che possa in qualche modo da una parte stoccare queste sabbie ma anche creare una situazione che possa costituire per il futuro della città uno sviluppo veramente interessante anche di riqualificazione e di rivalutazione. Da parte mia il fatto di vedere che c’è convergenza di intenti su un progetto che poi porta a risolvere questa problematica dell’insabbiamento del porto non può che vedermi favorevole”.

 Come crede di affrontare il tema della sicurezza in mare per i pescherecci?

La disciplina è fortemente regolamentata e nasce da esperienza e conoscenza; questo tema si evolve anche in base a quella che è l’evoluzione dei sistemi di sicurezza, quindi tutto passa attraverso una logica di formazione, informazione e rispetto di quelle che sono le regole e le leggi che comunque sia vengono imposte a quello che è un ambiente di lavoro molto particolare. Non dimentichiamoci infatti che il pescatore a bordo svolge una duplice funzione: non solo quella del pescatore in sé e per sé, ma anche quella di marittimo. Ognuna delle due ha le sue specificità, tanto che ogni pescatore è iscritto sia nella Gente di mare, sia nel Registro Imprese di Pesca. Ci sono delle regole che individuano quali sono i dispositivi e le procedure da seguire per rendere questo ambiente sicuro. Sicuramente oggi è un ambiente molto più sicuro di quanto lo potesse essere anni fa”.

Sempre più spesso si affronta l’argomento dell’inquinamento dei mari. Qual è la situazione nel Mare Adriatico? Cosa si può fare per prevenirlo o per “curarlo”?

“Anche in questo caso conta molto il discorso dell’informazione e della formazione. È vero che c’è questo tipo di problematica, ed è anche vero che è un discorso di coscienza ma anche di tecnologia, che portano a tendere verso un miglioramento di questo aspetto. La linea guida è quella della condivisione, tant’è vero che l’idea è quella di partire con dei progetti importanti. Uno c’è stato l’anno scorso di un solo giorno, quest’anno cercheremo di farlo durare addirittura trenta giorni consecutivi. L’obbiettivo è quello di coinvolgere il ceto peschereccio nella raccolta dei rifiuti che si trovano in mare. Tutto questo crea coscienza, crea un sistema, crea un processo virtuoso per quanto riguarda il recupero e lo smaltimento di questi rifiuti. Questa però è una fase successiva, bisogna prima lavorare sulla fase di prevenzione, utilizzando dei materiali che in qualche modo non vadano a incrementare questi processi di inquinamento e che non abbiano condizioni di rilascio, salvaguardando l’aspetto ambientale. L’aspetto ambientale va inteso a 360 a gradi, perché l’ambiente è anche una risorsa economica, che garantisce il futuro del comparto della pesca ma non solo”.

Il fenomeno delle cosiddette “isole di plastica” è presente anche nell’Adriatico?

“Diciamo che non è un fenomeno così evidente, però indubbiamente ci sarà concentrazione di un materiale difficilmente degradabile. Le isole di plastica si creano per la presenza di correnti particolari e le correnti presenti nell’Adriatico tendono a non crearle, ma questo non significa che la plastica non ci sia, per cui bisogna lavorare su due fronti: raccogliere quello che si trova, ma anche evitare di continuare ad immettere in mare questo tipo di prodotto e non solo di questo tipo di prodotto”.

Ha già in mente una strategia per il periodo estivo riguardo il controllo delle spiagge e la sicurezza dei bagnanti? 

“Questo è un must, nel senso che la nostra attività, che si svolge 365 giorni l’anno, nel periodo estivo per ovvi motivi aumenta e si va a concentrare su questo tipo di discorso. San Benedetto è una città a fortissima vocazione turistica e deve dare tra i vari prodotti che fornisce ai propri turisti anche quello della sicurezza. Per noi è un’attività che svogliamo quotidianamente, quindi ci sono dei meccanismi che sono ormai fortemente collaudati, sia per quanto riguarda il controllo sulle spiagge che per quello in mare. Partiamo sempre da una logica di informazione e prevenzione, ma soprattutto di condivisione. Per gli operatori la sicurezza non deve costituire un costo, ma un investimento. Investire sulla sicurezza significa investire sui propri beni, nel caso specifico sui turisti. Si fa tanto, si può fare di più e ci sono delle idee sia per migliorare sia la qualità delle attività di chi opera il controllo, come gli assistenti bagnanti, sia le modalità con cui il servizio viene servito”.

Cosa vorrebbe portare di suo alla Capitaneria ed alla città in generale?

“Io metto con tutta la mia umiltà a totale disposizione quella che è la mia esperienza. Credo che nel rispetto delle regole la parola d’ordine deve essere sempre quella del buon senso. Qui ho trovato terreno fertile e non lo dico per carineria, c’è una collaborazione con le forze di Polizia che è eccellente. Ho la sensazione che si lavori tutti insieme per un obiettivo comune; quello che mi piacerebbe fare e su cui sto cercando di operare, riguarda la valorizzazione della realtà e del ceto peschereccio. Io credo molto in questo tipo di attività, credo molto nel fatto che siamo un Paese marittimo, dove il comparto della pesca può essere importante. San Benedetto e tutta l’Italia in generale non può puntare su una pesca che sia di quantità”.

Cosa intende?

“Quando si dice che il 70/80% del prodotto che commercializziamo o mangiamo è di provenienza estera è vero. È un numero che sicuramente lascia pensare ma bisogna pensare che forse per certi versi questa è la normalità. Noi non siamo nelle condizioni di produrre questi quantitativi però quello che possiamo fare è una pesca di qualità. Il nostro prodotto è un prodotto di qualità, abbiamo già la materia prima; dobbiamo solo avere la capacità di valorizzarlo e per fare questo bisogna passare a un livello di pesca che mi piace chiamare Pesca 2.0. La tradizione, la storia e la cultura sono importanti, ed in questo porto ne abbiamo in abbondanza; dobbiamo iniziare a pensare ad una modalità di pesca nuova, che non miri alla quantità ma alla qualità, con un prodotto che sia a chilometro Zero, tracciato, certificato, valorizzato. Il pesce va catturato in determinate zone, con determinate tecniche e tecnologie. I pescatori dovranno avere delle conoscenze di biologia marina, dei luoghi e delle attrezzature a disposizione, delle condizioni metereologiche: mettere tutto questo a sistema potrebbe significare ricreare le condizioni per un lavoro nuovo che si basa sulle tradizioni ma che sia più capace di creare indotto, perché intorno alla pesca c’è il commercio, ci sono le aree di stoccaggio, gli operatori, i pescatori, i cantieri navali, i mercati all’ingrosso, quindi si può formare un indotto vero e importante. Io non combatterei una guerra commerciale in termini di quantità però vorrei raggiungere la situazione in cui è vero che produciamo solo il 30%  del nostro fabbisogno contro il 70% estero, però quel 30% vale come il 70% straniero, se non di più”.

Cosa potrebbero fare Stato, Comune e Capitanerie per salvare questo settore “morente”? Nonostante il porto di San Benedetto sia uno dei più importanti in Italia il numero dei pescherecci è in calo, non ci sono più giovani che si avvicinano all’attività. Come riavvicinarli a questo settore, che in fin dei conti rappresenta un’arte, una tradizione storica di questa città e non solo?

La Capitaneria di Porto può mettersi a disposizione agevolando questo tipo di processo ma è chiaro che se non c’è un interesse ed uno stimolo da parte degli operatori tutto questo rimane fine a se stesso. Informare, creare dei link, far sapere con sicurezza a chi rivolgersi, dare la possibilità di creare dei progetti che possano essere delle “best practices” da esportare. Questo Capitaneria ed Amministrazioni possono farlo; a volte i giovani non valutano la pesca come una reale prospettiva di lavoro. È considerato un mestiere difficile e antico, e per certi versi lo è ma è comunque una prospettiva e potrebbe essere invece un’opportunità molto interessante. Essere marittimo ed amare il mare non significa fare necessariamente il comandante o il capitano di una nave da crociera, ma può significare anche vedere il mare con un orizzonte imprenditoriale, da una nuova prospettiva, grazie ai mezzi che vengono messi a disposizione e con conoscenze che derivano dallo studio e dall’approfondimento”.