Non ho mai ben capito cosa si intenda con il termine “sovranismo“. Un po’ come la parola “populismo“: possono significare tutto e il contrario di tutto. Sappiamo infatti a memoria l’Articolo 1 della Costituzione Repubblicana, “la sovranità appartiene al popolo”. Dunque non ci sarebbe da discuterne granché. Nei primi tempi, il termine “sovranismo” veniva associato – o comunque io, modestamente, così lo percepivo – in riferimento al tema della “moneta sovrana“, in contrapposizione allo strumento euro. Con la “moneta sovrana” era/è possibile controllare il tasso di interesse (si era in tempo di terrorismo spread, ed è tornato); era/è possibile finanziare in deficit investimenti produttivi (opzione negata nell’Unione Europea); era/è possibile creare impiego per tutti coloro che desiderano essere occupati.

“Sovranismo” poi è stato identificato con altro. “Sovranisti” sono o sarebbero oggi Salvini (e Di Maio?) in Italia, Le Pen in Francia, Orban in Ungheria, Trump negli Stati Uniti, Farage in Gran Bretagna. A loro si contrapporrebbero i “globalisti”: Clinton, Renzi, Macron. Il tentativo di dar vita ad una forma di “sovranismo democratico” (una sorta di esaltazione del ruolo pubblico nella guida dell’economia a beneficio della maggioranza dei ceti medio-bassi evitando il classismo etnico-economico della nuova destra), ovvero di un rafforzamento delle istante delle costituzioni democratiche del dopoguerra e dei Trenta Gloriosi, è appannaggio di minoranze o esigue o ancora non pienamente affermate (ad esempio Mèlenchon in Francia, gli isolati Fassina e D’Attorre in Italia; qualche successo lo sta conseguendo Podemos in Spagna). Segnali ben diversi, anche se non ancora di governo, arrivano in maniera originale dal mondo anglosassone, dove fuori dai vincoli dell’euro emergono Sanders negli Stati Uniti e Corbyn in Gran Bretagna.

Questa premessa, sul punto dove ci troviamo, serve anche per un “punto” personale.

Ero presente quando in Italia nacque il seme del termine “sovranismo”. Credo che la data abbastanza condivisa possa essere quella del “summit” MMT del febbraio 2012. Oltre 2 mila persone pagarono per assistere ad una tre giorni di approfondimenti macro-economici, sostanzialmente di radicale applicazione del keynesismo in contrapposizione all’ideologia neoliberista dominante. Ero, stranamente, tra i 5 giornalisti, al massimo, presenti. Senza entrare nei dettagli sul perché un evento di tale partecipazione non si organizzò in forme partitiche, vorrei ricordare uno scambio di opinioni che ebbi in quella occasione con dei blogger romani (gestivano L’Olandese Volante).

Erano blogger di area di sinistra anche radicale: da quell’area culturale provenivano molti dei presenti, anche se non sarebbe corretto pensare a quell’assemblea come ad un monolite compatto (anzi). L’unico elemento comune era la critica alle politiche del governo Monti, da poco insediato, e dell’austerità europea. Parlando con i blogger romani dissi queste parole: “Solitamente quando si applicano politiche di questo genere, se ne esce con una virata a destra e non a sinistra“. Avevo già iniziato, nonostante quasi tutti attorno a me si sperticassero in lodi verso Monti e Fornero che stavano salvando l’Italia, una attività di critica al montismo. 

Forse nella mia ingenuità pensavo che molti elementi fossero condivisi, che l’ancoraggio alla Costituzione non fosse un feticcio ma un solido ideale. Tra i relatori della tre giorni vi era, ad esempio, Stephanie Kelton, che poco tempo dopo sarebbe stata nominata economista capo per i Democratici alla Commissione Bilancio Usa, quindi sarebbe diventata consigliere economico per Sanders nella campagna presidenziale del 2016 ed oggi è l’economista più ascoltata dell’anziano “socialista” americano, il quale, proprio su proposta anche della Kelton, ha appena lanciato l’idea di un lavoro federale per tutti i disoccupati, principio cardine della MMT e perno per un socialismo democratico nel XXI secolo: altro che Jobs Act (o anche Reddito di Cittadinanza…)!

Quel primo movimento etichettabile oggi come “sovranista” (allora il termine non veniva adoperato) ne avrebbe avviati molti altri; si sono tenute centinaia e forse migliaia di conferenze, incontri, summit in tutta Italia, a Bruxelles e a Londra. Vi furono dei limiti di collocazione politica ma il seme del rifiuto dell’ortodossia eurocratica – che fa oggi dell’Italia il paese dove lo scetticismo verso Bruxelles è maggiore che nel resto d’Europa – partì e si diffuse da quel movimento.

La Lega Nord di Salvini è stato il partito che più di altri ha saputo far suo quel movimento critico. Nonostante a livello intellettuale e della base la discussione più articolata provenga innegabilmente da ambienti di sinistra, a livello strettamente politico Salvini  ha saputo intercettare quell’humus culturale meglio che il M5S. Prima delle elezioni europee 2014 Salvini, accompagnato da Claudio Borghi, incontrò a Firenze alcuni rappresentanti della MMT italiana prospettando loro una serie di corsi di formazione economico-finanziaria da tenere in tutte le province del centro/nord Italia. Poi non se ne fece nulla (ovviamente: andare a spiegare la piena occupazione e l’intervento pubblico ai fanatici del debito e del privato è un ossimoro).

Borghi, un economista di formazione liberista, ha tuttavia capito la truffa del debito pubblico e la sua formazione ascoltando Warren Mosler, uno dei padri della MMT; Alberto Bagnai, un economista politicamente ambiguo, ha polemizzato superficialmente ma virulentemente con la MMT fino a crearsi un proprio pubblico di appassionati seguaci; Armando Siri frequentava i convegni eurocritici anche se il partito di cui era il fondatore, il Pin (Partito Italia Nuova) era portatore di istanze ultraliberiste come la famigerata flat tax, e infatti è confluito nella Lega e Siri è oggi Sottosegretario.

“Perché non parlate mai delle conflittualità che ci sono tra i Trattati Europei e la Costituzione Italiana?” chiese un ragazzo al termine di un confronto della campagna referendaria 2016 a Pancho Pardi, uno dei “professori” per il No. Pardi rispose francamente: “Perché così rischiamo di tirare la volata a Salvini”.

Si è visto come sono andate le cose. Le classi intellettuali e politiche democratiche e di sinistra, tranni pochi lodevoli esempi (a partire dal compianto Gallino) hanno avuto paura di criticare le scelte dei padri, e la timidezza – mai aver timore della verità! – li ha spazzati via. Salvini la volata se l’è tirata da solo, non trovando ostacoli e privato da confronti. Era una voce isolata ma non solitaria.

Ci si era illusi (ma neanche tanto), accompagnati da cotanti maestri sopra citati, di intraprendere la strada che avrebbe ridato al neoliberismo centrista i colori netti del socialismo. Si sta virando verso i colori netti della reazione. Accarezzavamo Sanders grazie a Kelton, ci siamo ritrovati il trumpismo a casa nostra. Si maledicevano i decenni del liberismo rosè (da sinistra) o blu (da destra), ci si ritrova ad essere contigui al liberismo nero di Visegrad.

Se la campagna referendaria costituzionale 2016 poteva rappresentare la saldatura tra la Costituzione e i diritti sociali dimenticati da 25 anni di Terze Vie blairiane in una contestazione, finalmente, di costituzionalismo democratico rispetto alle follie di Maastricht, la realtà di allora e del 4 marzo 2018 è stata ben diversa.

I movimenti sorti dopo le austerità montiane sono quasi evaporati, perché confluiti con troppa poca critica nell’area gialloverde, soltanto perché questa si poneva come alternativa all’ordine di Bruxelles. Flat tax, privatizzazioni e sussidi di disoccupazione ingoiati per uno 0,4% di deficit in più e perché Borghi e Bagnai sanno quale sia l’origine del debito pubblico italiano e chi se ne giovi.

Un grande spostamento a destra di chi ha studiato e divulgato riferimenti espressamente socialisti. Un classico italiano nei momenti di crisi. Tristemente prevedibile già nel 2012.

Ora i riferimenti per ripartire dalla Costituzione Repubblicana, e quindi dalla guerra di Resistenza nella forma plurale con la quale l’abbiamo conosciuta, sono diventati molto flebili nella nostra società. Costituzione e Resistenza, lo ribadiamo ai sedicenti buonpensanti dello spread, nata sia in opposizione diretta al nazifascismo ma anche al liberismo che creando eccessive disparità tra le classi, spinse la parte più in difficoltà della popolazione nelle mani dei demagoghi fascisti e nazisti.

Ci sono oggi dei movimenti che stanno cercando di rinascere dalle ceneri non solo del 4 marzo, ma anche della scomparsa del “sovranismo democratico” coincisa con la nascita e l’attrazione del nuovo governo.

Piccola speranza è che il M5S, una volta capito che il suicidio di diventare ancillare alla destra, sappia rigenerarsi, perdendo magari una parte degli eletti e dell’elettorato, e termini per sempre la fase fanciullesca: né destra né sinistra, Marx Keynes Friedman sono uguali, uno vale uno e via discorrendo. Sperando anche che gli amministratori locali e i parlamentari nazionali maturino una esperienza adatta alla nascita di un qualche nuovo soggetto di riferimento socialista.

Ma questa sarà un’altra storia. Quella iniziata con Monti nel novembre 2011, complici le manipolazioni di Napolitano e le letterine di Draghi e Trichet, fase acuta del vincolo esterno avviato nel 1992, è finita il 4 marzo 2018.