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Si è conclusa la prima annualità del percorso di Alternanza Scuola-Lavoro svolto dagli studenti della classe 4C Turismo dell’I.I.S. Fazzini-Mercantini all’interno del progetto “Una Rotonda sulla Storia”. Pubblichiamo pertanto le interviste che gli studenti hanno prodotto accogliendo le voci di Gianfranco Galiè, Gino Troli e Gianni D’Angelo detto “Schiuma”. La coralità dei loro racconti, a cui si aggiunge quello di Nazzareno Torquati, già pubblicato, dipinge la storia di una San Benedetto a molti sconosciuta ma da tutti riconoscibile come il cuore di una generazione che ha dato in eredità al presente le proprie conquiste, i propri sogni, le proprie passioni.

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GROTTAMMARE – Gianni D’Angelo “Schiuma”, in una mattinata soleggiata, ha raccontato agli studenti del IV C turistico dell’Iis Fazzini-Mercantini, la sua storia e quella di una generazione legata al suo locale, uno dei più famosi negli anni ‘80: il “Why Not”. Una intervista che è diventata una vera e propria storia. Che raccontiamo di seguito.

Sin da bambino avevo una forte passione per la musica. Alle feste di paese suonava il complesso musicale ed io sentivo forte la musica che mi entrava dentro, quasi in maniera istintiva. Mi ritengo fortunato perché ho potuto scegliere in maniera autonoma quel che volevo fare: ho acquistato 18 mila vinili, migliaia di Cd, ho visto centinaia di concerti. Sono stato anche ad una selezione dello Zecchino d’Oro: volevo fare il cantante, quello era il mio sogno. A 13 anni, quando iniziarono a nascere le prime radio libere, cominciai a formare i miei primi gruppi rock: mi intrufolavo in quegli ambienti radiofonici pieni di ragazzi più grandi di me che trasmettevano una musica dal forte impatto sociale. Dopo essermi inserito nel mondo delle radio come deejay, insieme a un gruppo di amici decidemmo di recuperare una vecchia balera che divenne il centro della movida di tutto il centro Italia, che apriva a giugno e chiudeva a settembre”

Qual era l’ambiente sociale, culturale e musicale di quegli anni?

“Ovviamente le discoteche si svilupparono dopo la nascita della musica disco, all’incirca all’inizio degli anni ‘70 in America. Noi tendevamo ad essere meno funky, un po’ più alternativi, seguaci del post-punk e della new wave. Ero amante dei Talking Heads, Cure, Joy Division, e quindi di Madonna, Michael Jackson, Human League e di tutta l’evoluzione successiva. Negli anni ’80 iniziarono a girare le droghe ma a noi non interessavano, pensavamo alla nostra passione, la musica, e grazie a essa siamo riusciti a non farci travolgere. Si usciva da un periodo dove i contrasti politici erano pesanti, io ero amico del fratello di Patrizio Peci, Roberto, assassinato dalle Brigate Rosse: con lui organizzavo concerti e quando morì fu davvero un colpo per tutti. Forse proprio per questa e per tutte le morti improvvise che segnarono il decennio precedente, negli anni ’80 ci fu da parte nostra un vero e proprio rigetto, a voler sottolineare la volontà di liberarci e renderci totalmente indipendenti dagli anni di Piombo. L’economia inoltre sembrava andare bene, per cui ci fu un passaggio forse oggi direi troppo netto”.

Come nacque la discoteca Why Not?

“Quando aprimmo il Why Not non sapevamo bene quello che sarebbe successo, eravamo consapevoli di far parte di un progetto importante anche se a livello imprenditoriale non eravamo competenti; dopo un po’ iniziammo a percepire che non era più un gioco, forse anche per questo dei sei ragazzi che eravamo l’unico che ha mantenuto la passione ma anche la concentrazione per quel tipo di lavoro sono stato io. C’era ingenuità, inesperienza: andavamo anche all’estero, ogni settimana facevamo feste, avevamo ospiti musicali, eravamo aperti tutti i giorni: pensate che anche il lunedì avevamo 150-200 persone, per non parlare delle serate a tema”.

Da qui poi si passò all’Atlandide.

“Costruimmo l’Atlantide, l’attuale terrazza di San Benedetto, insieme ad una signora che aveva il Cinema all’Aperto e organizzava eventi. C’era una pista enorme, con una piramide e una statua incas. Facevamo cose molto kitsch. La domenica pomeriggio era dedicata ai giovanissimi, avevamo sempre 1200-1500 ragazzi che venivano dalle Marche e dall’Abruzzo. Qui nascevano i primi amori: mettevamo dalla musica commerciale ai Doors. A livello organizzativo invece le cose andavano male, e io dopo nove anni, stufo di questa disorganizzazione, ho scelto la strada da libero professionista. Ho lavorato nei più grandi locali tra Ancona e Pescara, e tutt’ora ne gestisco uno sul lungomare di San Benedetto, prevalentemente frequentato da una clientela adulta. Nella vita occorre fare quello che si desidera, si può anche saper sbagliare, perché le difficoltà ci sono sempre e gli errori sono all’ordine del giorno, ma sbagliare significa anche sperimentare e sperimentando si cresce”.

In una società impegnata ideologicamente come quella degli anni ‘70, come nasce poi il cambiamento del decennio successivo?

“Gli anni ’70 furono davvero troppo pesanti, c’era una situazione sociale di forte malessere, anche a causa della presenza di varie organizzazioni nate in opposizione allo Stato. Nonostante tutta questa pesantezza, ho sempre pensato che la voglia di divertirsi fosse insita nell’essere umano e fu proprio negli anni ’80 che si palesò, tra look pazzi e musica rock. Negli anni ‘70 il rock primeggiava con i Led Zeppelin, i Deep Purple ma anche con James Brown e poi con il funk. La musica è stata sempre un mezzo straordinario di democrazia. Ogni essere umano percepisce un’emozione con la musica, e nessuno può togliergliela”.

E invece gli anni ’80?

“Forse, con il senno del poi, gli anni ‘80 sono stati troppo leggeri. C’era voglia di sentirsi più spensierati, e proprio per questo si dice che negli anni ’80 tutto era possibile. Ancora oggi non riusciamo ad avere risposte concrete su alcuni fatti del tempo; quando è stato rapito Moro studiavo ad Ascoli, e ricordo bene la situazione: ci fu un senso di disorientamento molto forte. Io venivo dalla sinistra, caldeggiavo un po’ per Lotta Continua. Poi tutto sparì e con gli anni ’90 si è andati verso l’individualismo e sono emersi personaggi politici come Berlusconi: fu proprio lui che portò la vera leggerezza, quella del mondo delle televisioni con TeleMilano. Ogni cosa si trasformò fino all’inverosimile e tornare a costruire le relazioni di una volta divenne davvero difficile. Io, raccogliendo il mio bagaglio umano, ho imparato che dialogare e sostenersi sono cose importanti che vanno anche aldilà del mio lavoro. La mia missione nella vita è quella di far divertire le persone e so molto bene di non poter piacere a tutti, ma continuerò a regalare leggerezza fino a che potrò. È bellissimo ad esempio ascoltare e far conoscere ai miei figli Frank Zappa, che andai a vedere a Zurigo negli anni ‘70. Io ho avuto la fortuna di vedere molti concerti dal vivo a Milano, come quello di Prince, o dei Radiohead, che sono il mio gruppo contemporaneo preferito”.

Quali sono le principali differenze tra la musica di oggi e quella degli ‘80?

“I puristi del ‘70 dicono che gli ‘80 fanno schifo. Ma negli ‘80 c’era anche, un nome su tutti, David Byrne. Non possiamo essere incoerenti e anacronistici, io penso che ogni epoca abbia la sua bella musica: Ghali, rapper contemporaneo ad esempio, mi affascina molto, è uno di quei cantanti che mi ha fatto capire che le multietnicità possono dare tanto. J-Ax e Fedez, invece, mi fanno ridere: li ritengo una specie di soap opera, un fenomeno molto concentrato sui soldi e, a mio parere, hanno poco interesse per la vera musica. A livello internazionale, per quanto riguarda la discoteca, l’house, nato tra Detroit e Londra, ricopre ancora un ruolo importante. Io resto legato al funk con belle voci calde di colore. Non mi piacciono i pezzi eccessivamente veloci. Oramai non si fanno più i dischi con gli strumenti musicali, a comporre note è il computer che registra voci manipolate. Mi sconvolge inoltre il discorso del reggaeton, i testi sono inascoltabili, sono soltanto un continuo ammiccamento sessuale. Sono stato spesso nei Caraibi, lì lo posso accettare come genere musicale autoctono, ma nel resto del mondo è un fenomeno stravolto e commercializzato. In Italia non se ne può più, nascono locali dediti soltanto a quello, preferisco mille volte l’hip hop o il rap italiano. La bella musica esiste sempre come esistono le belle persone”.

Tornando al Why Not, che impatto ebbe sulla San Benedetto di allora?

“All’epoca il punto di riferimento per divertirsi erano le balere, luoghi dove si ballavano lisci e dove passavano personaggi come Mina e Dalla. Il Why Not fu un punto di rottura: un’ex balera trasformata in maniera alternativa da un gruppo di giovani maldestri come noi. Nell’arco pochi anni aveva acquisito una notorietà tale in Riviera che tutti venivano al Why Not. Ha lasciato un segno indelebile, io stetti lì solo dal 1982 al 1989, mentre il locale durò fino al 1992. Un mio amico da anni mi diceva di riaprirlo. Era rimasto così, coperto da piante, inutilizzato, quasi fosse diventato un reperto storico. Ci abbiamo speso molti soldi e tra non poche difficoltà siamo riusciti a farlo risorgere. Abbiamo riaperto i battenti in occasione di tre eventi distanti un anno l’uno dall’altro, questo grazie anche all’aiuto dell’amministrazione di Monteprandone. Abbiamo fatto “pari” con le spese ma ci siamo tolti una grande soddisfazione, e il secondo anno di riapertura, grazie anche all’esperienza precedente, è andata molto meglio: in due serate abbiamo venduto 3500 biglietti da venti euro l’uno. C’erano persone adulte con i figli di 20 anni che hanno ballato insieme. È stata un’emozione molto forte”.

Come è nata l’idea del logo del Why Not?

“Nacque da un disegnatore, Gianluigi Capriotti, fu lui che inventò l’uomo-donna-delfino. Capimmo di doverci servire della comunicazione visiva e la nostra intuizione fu una “botta” di fortuna, perché oltre ad essere stata molto impattante, ci permise di promuovere con successo il locale: facemmo adesivi che vennero attaccati ovunque, nelle stazioni, negli aeroporti e non solo in Italia. Infatti li trovammo dappertutto.  Il nome fu anch’esso una carta fortunata, molti andavano a lavorare a Londra quindi ci orientammo su nomi inglesi, avevamo valutato nomi come Backstage o Fuori dalle Righe; alla fine però ci innamorammo di questo.

Come venne pubblicizzato il locale?

“Io fino a due anni fa stampavo i volantini e anche all’epoca facevamo così: manifesti, stampe, fonica, poi punti di ritrovo come bar, chalet e, soprattutto, il passaparola. Non c’erano telefonini o internet. Oggi invece non stampiamo più nulla, tutto quello che si vuole far conoscere passa attraverso i social, ma a mio parere bisogna dare ancora importanza al passeggiare, al parlare, al guardarsi negli occhi; alla Rete va dato il giusto e non l’esclusivo valore”.

Gli orari di apertura e chiusura erano differenti rispetto ai giorni nostri?

“Non erano molto diversi. Si dava inizio alla serata alle 22,30-23, alle 24 il locale era pieno. Adesso c’è il pre-serata, si va nei bar e nei locali prima e poi non prima dell’una o delle due di notte si va in disco. Noi avevamo la fascia della domenica pomeriggio, era una specie di zona di formazione, dove i ragazzini più piccolini (14 o 15 anni) iniziavano ad entrare nel nostro mondo del musica, per non dar loro modo di bruciare troppo le tappe. Mi rendo conto che tutto si è velocizzato, ma non sono molto d’accordo perché poi a 30 anni si è già vecchi, si sono fatte tutte le esperienze possibili e si finisce, spesso, col prendere brutte strade per una sazietà che resta inappagata”.

Come si poteva definire la musica italiana negli anni ‘70 e ‘80 ?

“Negli anni 70 c’erano ancora De Andrè, si affermava Dalla e tutti i cantautori di quel periodo, Battisti, Fossati, Renato Zero, i Nomadi che facevano grande musica. Claudio Lolli era un compositore politicizzato, mi piacevano i Banco del Mutuo Soccorso o la PFM. Negli anni ‘80 cambiò tutto, c’erano Gianna Nannini, Vasco Rossi, Bennato, Battiato anche loro grandi cantanti che segnarono nella musica quel cambiamento che stava avvenendo nella vita”.

Cosa rappresentava e cosa rappresenta ora, secondo lei la discoteca?

“Alcuni canoni sono simili: è sempre una forma di aggregazione. C’è chi va per passare il tempo, chi per innamorarsi e chi per il piacere della musica. All’epoca la gente cantava mentre ballava, ci si cercava di più. Ora devo dire, anche per esperienza personale, si vedono ragazzi fare serata, guardando il mondo attraverso lo schermo del cellulare. Questo è deprimente”.

Schiuma party all’Atlantide, Ferragosto 1992

 

Nel periodo estivo la discoteca era attrazione turistica?

“Certo, e all’epoca lo era ancora di più. Se oggi vai in vacanza in Salento, in Sicilia o in Grecia, la sera cerchi il locale dove andare. Non esiste città turistica se non c’è una vita notturna adeguata; ad esempio San Benedetto, anche se possiede solo piccoli locali, ha una certa qualificazione in termini di divertimento serale e notturno. Se riuscissimo a sviluppare determinati ambiti, compreso quello della vita notturna, riusciremmo a incrementare di gran lunga il nostro turismo”.

Come promuoverebbe il nostro territorio a livello di turismo giovanile?

“Io mi auguro che la vostra generazione crescendo prenda in mano questa città, che ancora oggi non è amministrata al meglio. Il livello di turismo più alto lo abbiamo avuto dagli anni ‘60 agli anni ’80, epoca nella quale ci fu un vero e proprio boom economico. La città andrebbe reinterpretata a livello di comunicazione non solo urbana ma legata a tutto il territorio, che andrebbe sviluppato in compartecipazione con i borghi interni, con Ascoli, il Parco dei Monti Sibillini, la zona di Castelluccio, l’Abruzzo, cercando di creare anche percorsi collegati per i turisti, una sorta di itinerario intra e interregionale, offerto dagli stessi hotel o dalle varie strutture ricettive”.

Gianni Schiuma oggi, al Viniles

Abbiamo letto un suo articolo riguardo a un ragazzo preda dell’eroina: potrebbe dirci se ai tempi, circolava la droga nei locali?

“Forse ne girava meno di quanto ne gira adesso. Ad un certo punto, quando lo Stato non governava più le piazze, queste sono state invase dall’eroina; e io ho visto le menti migliori spegnersi e morirne. Ve lo dico in base alla mia esperienza: noi uomini siamo esseri perfetti, ci sono le endorfine naturali che ci permettono di arrivare ad un livello di estasi, se si impara e se si riesce ad equilibrare euforia e tristezza. Non esistono le cosiddette “droghe leggere” è meglio non provare nessuna sostanza; qualche errore si può fare ma dietro a tutto questo sistema ci sono dei mostri che si arricchiscono a dismisura sulla pelle delle nuove generazioni a dir poco ingenue. Inoltre è tutto contaminato chimicamente. Purtroppo alcuni generi musicali obbligano all’uso di droghe altrimenti non sono sostenibili”.

In quegli anni ci fu un evento terribile per San Benedetto, il rogo del Ballarin. Lei come lo ricorda?

“Io nasco come Giovanni D’Angelo, e sono diventato Gianni Schiuma, così ribattezzato proprio dall’evento del Ballarin. Questo evento resta una ferita aperta e importante della mia giovinezza: avevo 19 anni, stavo per partire per fare il militare e, siccome all’epoca si schedavano le persone che avevano fatto attività politica, mi avrebbero mandato in un posto scomodo, nel centro della Sardegna. Quel giorno, il 7 giugno, si tornava in Serie B. Si usavano i fumogeni e la carta per fare festa. Nessuno si accorse di quel che stava accadendo, le fiamme erano rarefatte. Io ero a metà gradinata, non capivo quello che sarebbe successo di lì a poco, qualcuno iniziò a prendere fuoco e molti scapparono creando il caos. Io pensavo di uscire come tanti altri ma quando arrivai in una delle uscite mi fermai per il fuoco; la mia immobilità fece sì che venni travolto da una massa di persone che scappava. Preso dal panico provai a salire sulla rete e tentai di scavalcare il filo spinato. Cadendo persi l’udito e svenni, mi buttai disperato contro la barriera di fuoco che ostruiva l’uscita. La mia pelle era completamente bruciata e sono stato portato all’ospedale dove rimasi un mese e mezzo. In reparto sembrava di essere usciti dalla guerra, con persone fasciate e i lamenti delle due ragazze che persero la vita poco dopo. Per due anni non ho potuto prendere il sole, uscivo alle otto di sera, ero una specie di vampiro. Ho usato creme speciali per diverso tempo, ho avuto a lungo l’incubo del fuoco; dormivo con un bicchiere d’acqua sul lavandino per tranquillizzarmi. E alla fine, a causa delle ustioni, non partii per il militare”.

E’ vero che il suo nome “Schiuma” deriva da quegli eventi?

“Ero stato a Londra due mesi per fare il cameriere e c’era un giornale chiamato Frigidaire su quale disegnava anche Andrea Pazienza, disegnatore e artista di San Benedetto. C’era una rubrica che si chiamava Schiuma, dedicata ai lettori: io mandai alla redazione la foto post-Ballarin, con la mia pelle bruciata e raccontai questa storia. Il tutto fu pubblicato e quando gli amici di sempre lessero l’articolo mi dissero: “Tu da questa sera sarai Gianni Schiuma”.

Dopo solo due giorni ci fu un’altra tragedia a San Benedetto quella di Roberto Peci, cosa può dirci a riguardo?

“Ho sofferto tantissimo, uno degli arrestati era mio amico e fu un duro colpo. Io e Roberto non eravamo intimi ma organizzavamo concerti insieme al Concordia. Quando arrestarono Patrizio, fui uno dei primi a saperlo. Roberto chiedeva aiuto per sostenere la causa del fratello. Quando divenne un pentito, Roberto era combattuto tra l’affetto fraterno che svincolava da ogni canone e la sua vita ordinaria. Il suo rapimento fu sconvolgente, ho pregato tanto affinché lo liberassero; non ho mai voluto vedere il video nel quale lo uccisero, fu già terribile per me sapere che lo avevano anche filmato. Lì finiva un’epoca, uno spartiacque anche per San Benedetto. La storia cambiò radicalmente”.