SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Una settimana di incontri, laboratori, spettacoli e giochi; seminari con ricercatori di livello internazionale, giornalisti, artisti, con attività per grandi e piccoli.

Il National Geographic Festival delle Scienze a Roma è un caleidoscopio di attività, che mira alla divulgazione delle più affascinanti scoperte scientifiche. Conferenze dedicate all’ambiente, dissertazioni sulla fisica e la robotica, considerazioni sull’economia, sono alcuni dei tasselli di un evento dedicato alla Terra e alla sua salvaguardia. L’edizione 2018 ha dato grande risalto alla salute degli oceani, sempre più minacciati dall’inquinamento. Sostanze chimiche, radioattive e plastiche stanno rendendo estremamente precario l’equilibrio delle masse d’acqua che ci forniscono nutrimento e la maggior parte dell’ossigeno che respiriamo.

Per invertire la tendenza e favorire uno sviluppo più sostenibile, più di un ente ha cominciato ad investire sull’informazione e la ricerca. Sky Ocean Rescue, in particolare, è la nuova campagna di Sky per sensibilizzare il pubblico sul problema della plastica; con un fondo di 25 milioni di sterline, finanziato anche da National Geographic, l’istituzione elargisce finanziamenti a scienziati e aziende che lavorano per la riduzione dell’inquinamento marino. Lunedì 16 aprile, proprio nel corso del Festival delle Scienze, tre borse di studio sono state assegnate ad altrettante giovani ricercatrici, che hanno presentato progetti innovativi sul monitoraggio e la salvaguardia degli oceani. Imogen Napper, dell’Università di Plymouth, Annette Fayet, dell’Università di Oxford, e la sambenedettese Martina Capriotti, dell’Università di Camerino.

Martina Capriotti sta sviluppando un approccio innovativo per testare l’impatto e la pericolosità delle microplastiche sulla vita marina, e svolgerà le sue ricerche nelle acque dell’Adriatico. Con il conferimento della borsa di studio, è stata inoltre nominata ambasciatrice di Sky Ocean Rescue, un incarico che le permetterà di divulgare al meglio tutte le informazioni sulle microplastiche, i pericoli connessi, e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla salute del nostro mare.

 

Cominciamo con una presentazione, un rapido curriculum. Puoi descriverti brevemente?

“Il mio percorso di studi si è incentrato essenzialmente sull’ambiente marino. Mi sono laureata in biologia dell’ambiente marino presso l’università di Camerino, poi ho preso la laurea magitrale in biologia marina presso l’Università Politecnica delle Marche, con una tesi svolta in Erasmus. Ho passato sei mesi in Norvegia, dove mi sono occupata di ecotossicologia e ho studiato gli effetti di alcuni inquinanti ambientali sul salmone atlantico.

Dopodiché, volendo entrare nell’ambito della ricerca, ho svolto un dottorato in scienze della vita e della salute all’Università di Camerino, che nella sede di San Benedetto fa ricerca applicata al mare. Ho avuto modo di studiare nuovi metodi e approcci di biomonitoraggio ambientale e valutazione dello stato di inquinamento. Ho finito il dottorato all’incirca un anno fa, ora lavoro come tutor didattico all’Università. A maggio dovrebbe essere pubblicato un bando di ricerca a cui vorrei candidarmi; in questo modo potrò portare avanti sia il lavoro che il progetto per cui sono stata premiata.”

 

 In cosa consiste la tua ricerca? Come sei arrivata a partecipare al National Geographic Festival?

“Il progetto con cui ho vinto la borsa di studio si intitola “Un approccio innovativo per testare l’impatto da microplastiche nell’Adriatico“. L’ho scritto per un concorso indetto da National Geographic, in collaborazione con Sky Ocean Rescue, che mira alla salvaguardia dell’ambiente marino. Ho saputo del concorso da un’email che mi ha mandato l’università, ogni tanto ricevo qualche comunicazione di progetti e gare. Questa in particolare mi ha attirato, anche perché rientravo perfettamente negli standard richiesti. Se devo essere sincera, non pensavo neanche di vincere, visto che si trattava di un bando internazionale, ma mi sono detta di buttarmi e ho inviato il progetto.

A marzo ho ricevuto la comunicazione dove mi confermavano la vincita, e soprattutto il fatto che ero stata selezionata per essere una dei tre “ambasciatori” di Sky Ocean Rescue. Sono l’unica italiana del trio, le altre vincitrici sono una francese che studia ad Oxford ed un’inglese dell’Università di Plymouth. Il Premio è stato annunciato proprio in occasione del Festival delle Scienze, dove oltre ai grandi esponenti di Sky e National Geographic, abbiamo avuto l’onore di conoscere la più grande oceanografa di tutti i tempi, Sylvia Earle.”

 

Cos’è lo Sky Ocean Rescue? Cosa vuol dire esserne la portavoce?

“Lo Sky Ocean Rescue è una campagna di prevenzione, promossa appunto da Sky, già da un annetto. L’obiettivo è la salvaguardia degli oceani attraverso azioni preventive, formazione a livello delle scuole, campagne di pulizia delle spiagge, e anche idee per il recupero delle plastiche.

La cosa più importante è lavorare con i bambini, perché possano acquisire una cultura del risparmio della plastica, cioè imparare a sostituire dei classici oggetti usa e getta che abbiamo in casa o al lavoro con dei validi equivalenti, fatti magari con materiali biodegradabili. Oltre a proteggere l’ambiente, è anche un modo per proteggere noi stessi. Sky Ocean Rescue ha un suo canale ed è presente su tutti i social, quindi ha un grande potenziale divulgativo. Uno degli scopi del mio progetto è proprio quello di promuovere la cultura della riduzione dell’uso della plastica e un suo corretto smaltimento. Con le mie ricerche spero di riuscire a far capire il reale danno che questi rifiuti possono provocare, quindi lavorerò anche con le scuole e le autorità, che in questo senso considero importantissime.”

 

Cosa sono le microplastiche, quindi?

“In sostanza, sono tutti i frammenti di plastica più piccoli di cinque millimetri. Alcuni tra i pezzi più grandi sono visibili, ma gli altri possono essere osservati solo al microscopio. Sono presenti in tutti i mari, e anche in grandi quantità.

Sono molto dannose per l’ecosistema: quando vengono ingerite o filtrate dagli organismi marini, per esempio, comportano tutta una serie di effetti nocivi sullo sviluppo o la nutrizione.

Le microplastiche sono pericolose soprattutto perché si impregnano facilmente di sostanze tossiche. Nell’acqua vengono sversati alcuni composti cosiddetti idrofobici, che tendono cioè ad essere respinti dalle molecole acquose. Avendo poca affinità per l’acqua, aderiscono facilmente alle superfici solide come la plastica, e si accumulano anche negli organismi viventi.”

 

Quanto è a rischio l’Adriatico?

“L’Adriatico è molto vulnerabile alle microplastiche, e all’inquinamento in generale: un po’ per la sua conformazione, essendo un mare semichiuso, e anche perché è poco profondo. Queste sono due cause che determinano un basso ricircolo di acqua pulita proveniente dal resto del Mediterraneo. In aggiunta a questi fattori morfologici c’è anche il fatto che, per lo meno sul versante italiano, ci sono tantissimi fiumi e torrenti che riversano le proprie acque sulla fascia costiera, portando con sé anche una serie di inquinanti chimici. Questi, una volta in mare, entrano nella catena alimentare fino ad arrivare all’ultimo anello della catena che è appunto rappresentato dall’uomo. Quando la ricerca prenderà il via, il mio lavoro consisterà nel prelevare queste plastiche tramite setacciamento. Esiste uno strumento apposito, che si chiama proprio “retino per le microplastiche”, che ha una maglia molto piccola, ed è legato ad un supporto chiamato “manta”. Basta collegare questo strumento ad un’imbarcazione e poi procedere a lento moto, trascinandolo dietro. Il retino filtra tutta l’acqua e intrappola le microplastiche all’interno.

Il resto del lavoro verrà fatto in laboratorio. Dovrò caratterizzare, ovvero identificare le sostanze chimiche sulla superficie delle plastiche, poi le estrarrò e farò dei test in vitro; osserverò l’effetto che hanno quando entrano all’interno di singole cellule vitali, che impatto possono avere sul metabolismo. Durante questa ricerca sarò affiancata dal Dott. Bracchetti Luca e dal Dott. Cocci Paolo, dell’Università di Camerino.”

 

Che consigli puoi dare per ridurre, nel quotidiano, l’impatto dei rifiuti plastici nel mare?

“Per cominciare, bisogna sicuramente fare la raccolta differenziata. Non è un concetto così scontato, attualmente molte famiglie non la praticano correttamente, anche qui a San Benedetto, per cui a volte è importante sottolinearlo. Già questo sarebbe un grande passo avanti, soprattutto per insegnare ai propri figli il rispetto per l’ambiente. Poi dovremmo cercare di eliminare un po’ di plastica dalla nostra vita. Un esempio comune è la cannuccia che si usa per le bibite. La cannuccia è il classico oggetto di plastica usa e getta, uno dei tanti che poi si accumulano, in mare così come sulla terraferma. Sarebbe meglio bere senza, oppure usare delle cannucce biodegradabili che ora si trovano in commercio.

Comunque lo slogan di Ocean Rescue non è “Aboliamo tutta la plastica!”, il suo obiettivo è semplicemente una riduzione ed un uso ragionevole delle plastiche, evitando il più possibile l’usa e getta. Al posto di bicchieri e posate di plastica, quindi, suggeriamo di usare stoviglie in vetro e ceramica; quando andiamo a fare spesa, meglio portarsi dietro una sportina di stoffa che comprare tutte le volte le buste del supermercato. E’ vero che ora sono biodegradabili, ma il tessuto è comunque la migliore alternativa, e nel tempo fa risparmiare.”