di Alceo Lucidi

Corre l’anno 2018. Eppure vi è chi ancora coltiva la poesia, non come mezzo di elezione o intimo ripiegamento, ma come spiegazione della vita, tensione morale ed motiva, morso dell’inquietudine, universale indiscusso. É Filippo Massacci, lettore appassionato, speleologo di “cose” letterarie, imperterrito promotore di cultura.

Non poteva esserci spettacolo più degno, più profondamente sentito e, assieme, scontato sulla propria pelle per un uomo alla costante ricerca di senso, proprio nella giornata mondiale della poesia promossa dall’Unesco, mercoledì scorso, 21 marzo, presso il Palazzo “Bice Picentini”. Serata accessibile ad un pubblico di non udenti LIS ).

E a fare da madrina del recital – esordisce Massacci – ci viene incontro proprio lei, la poetessa in vernacolo, Bice Piacentini, forse rimasta in ascolto, dopo aver trattenuto il fiato, della galleria di ritratti tratteggiata dal presentatore: «una galleria dell’anima» (per dirla con Antonio Machado).

Così nel viaggio intrapreso, sospeso tra realtà e fantasia, verità e finzione, si descrive la centralità della poesia stessa che non cerca conforti ma piuttosto sale fino alle regioni più segrete del nostro essere (fino a spaventarlo o, per lo meno, renderlo più avvertito), perché – raccogliendo le parole della Presidente della sezione di San Benedetto del Tronto del Club Unesco, Laura Cennini, che, dopo i saluti dell’ amministrazione comunale che ha dato il patrocinio, ha aperto la serata – «la poesia ci invita alla consapevolezza e per questo ne abbiamo paura». O, per riprendere una frase proverbiale del critico letterario Carlo Bo – espunta dal celebre scritto Letteratura come vita del 1938 –, come parte di una storia più ampia della letteratura, e in quanto letteratura, «ha troppa memoria per risolversi in una passione che subisce i nostri umori, le nostre stagioni, la nostra povera polemica di viventi (…) è un discorso infinito e continuo che apriamo con noi stessi» così da assumere i contorni «della massima condizione del nostro spirito».

Con la sua valigia da vero viaggiatore ideale, Massacci, dispiega, ad uno ad uno, gli amati poeti per i quali opera una scelta, anche dolorosa e, per ognuno, riesce a cogliere la radice, foss’anche la più segreta, come segreta e onnipresente è la poesia. Di ognuno coglie il tratto universale che permette – seguendo il suo pensiero – di uscire dalla vicenda privata, dal vissuto del singolo per attingere a sensazioni eterne e concetti sempre vivi, alimentando «la precarietà dell’esistenza».

Nella sua difficoltà ad esprimerla, per Wislawa Szymborska, il primo tassello del mosaico messo in piedi, la poesia è incontro col mistero nel suo farsi e, nel mezzo della fragilità umana, appiglio a cui sorreggersi «come a un passamano».

Poi, dalla sua borsa affollata di ricordi, ecco comparire una raccolta di Emily Dickinson, solitaria sacerdotessa di un rito consumato nel chiuso di un mondo pronto a dilatarsi sino all’infinito. Con oltre 1800 poesie scritte, Emily è una presenza più che vivida, al di fuori e al centro della realtà, recita ancora Filippo Massacci.

Ma non basta; bisogna scendere sino alla poesia come atto di ribellione e di riscatto, con quel Rimbaud per cui la letteratura non sarà più la stessa: il poeta definitivo, del capovolgimento dei valori nell’esplosione del verso («Una sera ho fatto sedere la bellezza sulle ginocchia / E l’ho trovata amara / E l’ho insultata / Mi sono armato contro la giustizia»). Il Rimbaud della discesa, anche solo per una stagione, maledetta, all’inferno, ossia ai limiti di una conoscenza senza più ritorno.

E bisogna anche ritornare, come d’incanto, alle esperienze di vita in questo incessante andirivieni tra letture e sprazzi di memorie, tra letteratura e vita.

Prima Penna («Beato chi è diverso essendo egli diverso / ma guai a chi è diverso essendo egli comune) poi Acruto Vitali, incontrato a Porto San Giorgio, il primo traduttore italiano di Rimbaud, lettore a casa Visconti, cantante alla Scala, amico di Saba, Gadda, Penna. Acruto è un amico di Filippo; lo accoglie nella sua casa (quasi un museo), tra i tanti libri, i suoi quadri  e le Amalasunte di Osvaldo Licini.

In seguito, a Cupra Marittima, è Giorgio Voltattorni, il poeta-pittore-operaio, con le sue vene nostalgiche, i paesaggi antropomorfi, alla Baudelaire, il suo campionario umano, ad infoltire il gruppetto («Hai Venezie / negli occhi / dove esili gondolieri / di vetro / traghettano sere soffiate / e ciclamini: / sottili sere / venate di pianto»). Il tempo di scendere il pendio del vecchio paese ed ecco farsi incontro Eugenio De Signoribus. La sua è una poesia «potente», come in sospeso sull’avvenire che – afferma Massacci – fa pensare «alle sculture incompiute di Michelangelo» («arrivato a un punto detto “fine” / alla vista di chiare e più rovine / risalire per righe roghi e rampe / l’incasato detto tra le vampe / “libro”).

Il percorso si snoda poi per Grottammare dove transita con il suo treno un incredulo Lawrence Ferlinghetti che, per un caso – la motrice si ferma – resta incanto dal borgo sospeso sul mare e ne fa poesia («Il mare turchese al largo di Grottammare / Grottammare e le sue caverne marine piene di echi, oltre l’Adriatico»).

Sempre con l’inseparabile Acruto Vitali, il Virgilo della narrazione di Massacci, si arriva infine a San Benedetto, dove attende Enrica Loggi. É dolce la sua poesia. É un canto al creato, alle piccole cose, capace di svagarsi sino a diventare eterea «con le sue parole leggere che ti entrano dentro e poi ti esplodono nell’anima».

Filippo immagina l’incontro tra le due anime della poesia sambenedettese al femminile: quella dialettale, di Bice Piacentini, che immagina di incontrare  nel vecchio incasato, mentre regala un libro di poesie con una sua dedica ad un bambino impegnato a giocare a palla che diverrà sarto per necessità e musicista per passione (il figlio di quel bambino, come in un ideale passaggio di testimone, farà dono molto tempo dopo, a Massacci del prezioso libro) e quella di Enrica che Filippo invita a leggere una poesia di Bice («Lu mònne ‘ntire pù pure ggerà / lu mònne ‘ntire còmma sta piantate / e quante scille tutte reggerate / revì jécche e te sinte ricrià»).

Sembra che la poesia, in tutto ciò che suscita, non conosca proprio confini e che danzi tra parole e sentimenti dilantando i suoi spazi continuamente: dal piccolo borgo, alla tragica parabola di Sylvia Plath, a Jimenez, fino al grido della terra di Ada Merini che chiude il cerchio magico («Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle / aprire zolle / potesse scaternar tempesta. / Così Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera»).