Pubblichiamo questo ricordo di Massimo Consorti, scomparso giovedì 15 marzo, scritto da Alceo Lucidi. Un ritratto davvero coerente che lascia nel cuore molta commozione e dolore per una perdita importante.

Si fa fatica ad accettare una morte improvvisa e sconvolgente come quella di Massimo Consorti. Non per la natura in sé del fatto, ma per il modo in cui ci ha sorpresi tutti. E quando dico tutti, parlo dell’intero comparto (se così possiamo chiamarlo) della cultura locale (abruzzese e marchigiana per lo meno).

In realtà, il raggio d’azione intellettuale di Consorti andava ben al di là dei ristretti limiti della zona in cui da sempre operava (quella di San Benedetto del Tronto), ma abbraccia territori geografici ed ambiti di applicazione e di studio pluricentrici.

Perché Massimo è stato uno studioso – anzi un umanista a tutto tondo – un giornalista scrupoloso, certo, ma anche un saggista (ricordiamo le tante recensioni, decine e decine, uscite sui giornali e le riviste più diverse, su autori e, soprattutto, su artisti), uno scrittore forbito (la sua biografia su Carlo Delle Piane è lì a dimostrarcelo), soprattutto, un irresistibile e potente divulgatore e promotore culturale (la rivista Ut, da lui fondata, assieme a Francesco Del Zompo e Giorgio Camaioni, era il più bell’esempio del suo impegno incondizionato e laico – senza limiti ideologici – per la conoscenza).

Era un uomo che, nonostante la vita non facile, i lutti, i dolori, sapeva trasformare tutto in una contentezza ed uno slancio generoso verso gli altri che, per quello che mi riguarda, trova pochi confronti. Si dava a tutti con un sorriso ed una battuta; sapeva diventare, all’occorrenza, un amabile conversatore così come un severo direttore, animato dallo spirito, molto british, quasi puritano (nel senso della dedizione al lavoro e della precisione nel dettaglio, della disciplina della ragione) che aveva appreso alla scuola della Reuters. Sì perché Massimo – molti, ma non tutti, lo sapranno – fu un inviato di guerra, un corrispondente in prima linea che, girando il mondo, toccò con mano le atrocità e le assurdità della guerra (Cecenia, Ex-Jugoslavia).

Una sera, a cena, mi raccontò, con una punta di orgoglio – sempre celata, come si conviene alle persone grandi – di come fosse stato uno dei primi giornalisti a lanciare la notizia della liberazione di Sarajevo dalle truppe serbe in quella terra martoriata. Ma ricordo anche di quando mi chiamò, diversi anni fa, a tenere il corsivo per la “Ut”, veramente la sua creatura, alla quale credeva tanto e per quale si era ispirato alla gloriosa “Scuola del Libro” di Urbino, sua (e mia) città di elezione. L’apertura alla diversità, la poliedricità dei contenuti, la forma stilosa della plaquette erano il chiaro retaggio di quella formidabile tradizione.

Mi parlò, sempre in quella cena, della sua formazione (una laurea in lettere e l’altra presso una delle due scuole di giornalismo fondate dal lungimirante rettore Carlo Bo, assieme a Carlo Paci).

E che dire, poi, della sua opera di scoperta di numerosissimi giovani, da lui tenuti a battesimo ed incoraggiati nel lavoro, messi a fianco, in rivista, a nomi come quelli di Umberto Piersanti, Ascanio Celestini, Gastone Mosci. Un’opera incessante, come frequentissime furono le sue incursioni tra mostre, festival letterari, iniziative culturali di ogni genere.

Dicevamo, non solo l’arte e la letteratura occuparono Massimo, ma anche il cinema (da fine intenditore promosse, anche lì, diverse rassegne, una a dirittura a Boston su Luchino Visconti assieme a Gabriele Brancatelli) e poi la musica, quella che conta, colta, cantautorale (come dimenticare il sodalizio pluridecennale con il Festival Ferré ed i tanti articoli scritti per l’occasione, l’amicizia con Giuseppe Gennari e Mauro Macario, il sodalizio con Enrico De Angelis, direttore artistico del Premio Tenco e con il musicologo della RAI Paolo De Bernardin?).

Da ultimo, a completamento del suo percorso intellettuale complesso, stratificato, prestigioso, la direzione del Premio sul cortometraggio italiano “Libero Bizzarri”, assieme al Ferré uno dei monumenti della cultura locale.

Prendere congedo da chi ti ha aiutato e supportato nella scrittura; da chi ti ha dato fiducia e per primo pubblicato, non è facile.

Sono – siamo sicuri – Massimo, che resteranno le tue parole soccorrevoli, i tuoi gesti cortesi, la tua irriducibile generosità e che quello che hai lasciato sarà il più bel gesto d’amore con cui hai onorato la città di San Benedetto del Tronto, che non sempre ti ha riconosciuto.

Dicevi di essere amareggiato dalla politica, ma solo perché ci credevi tanto. Credevi nella politica senza compromessi, come impegno sociale e condivisione del bene comune, come partecipazione e servizio alla collettività. Tutta la tua vita resta un gesto politico di rivendicazione e denuncia delle bassezze umane, degli intrallazzi di palazzo, dell’esercizio di un potere – qualsiasi esso fosse stato – fine a se stesso. Sei stato un uomo vero, moralmente integro e coraggioso, anarchico nel senso di un esercizio di coscienza non barattato, lontano dai proclami e dalle pose intellettualistiche.

Ti saluto con grande affetto e ti lascio, o mio capitano, con gli ultimi versi della famosa Ballata degli impiccati di François Villon, un solitario come te, piegato sui dolori del mondo. Ciao Massimo.

«O Gesù, che su tutti hai signoria,

salva l’anima nostra dall’Inferno,

con cui niente vogliamo da spartire.

Qui non c’è niente da scherzare, Umani,

ma Dio pregate che ci voglia assolvere!»