SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Alcune riflessioni del cittadino sambenedettese Tonino Armata sui “primi” dieci anni del Partito Democratico.

Dieci anni sono il tempo giusto per valutare l’esperienza del Partito democratico, nato per dare all’Italia, finalmente, un soggetto unitario in grado di governare e trasformare profondamente il paese, in un quadro di progressiva integrazione europea.

Un bilancio è un’esigenza, soprattutto per chi come me ha contribuito con convinzione alla nascita del partito.

La domanda semplice che ci si deve porre è la seguente: quali erano le ambizioni del Pd e come stanno le cose oggi?

Andiamo all’essenziale:

Il Pd, lo abbiamo ripetuto mille volte, si fonda sulla volontà di unire tutti i progressisti in un unico contenitore politico: quelli collocati nel campo della sinistra, del cattolicesimo democratico, del pensiero laico, radicale e libertario, della società civile più avanzata, cosciente e critica.

Unire volle significare rompere gli steccati, fondere le culture, stabilire in un reciproco cambiamento l’emergere di una più adeguata e moderna lettura del mondo.

Insomma, ricercare un punto di vista più adeguato: sintesi tra la sacrale attenzione per la persona umana e per le sue libertà, contenuta nella storia del pensiero cattolico migliore e della tradizione laica e repubblicana, con l’azione, incessante, propria della tradizione socialista e del Pci, di stabilire rapporti più giusti tra le classi, accorciando le distanze tra chi sta sopra e chi sta sotto.

Possiamo dire, oggi, che questa osmosi sia avvenuta?

Penso di no; almeno non sufficientemente.

È vero che c’è una nuova generazione del tutto lontana dalle divisioni di un tempo. Ed è vero che, soprattutto alla base della piramide del partito, un sentire comune si è affermato.

Tuttavia, i gruppi dirigenti sono ancora segnati da vecchie storie; il partito è diviso in correnti, più di potere che di elaborazione politica; e gli stessi richiami alle vecchie radici sono spesso grottescamente, e in forma ideologica, utilizzati per giustificare spazi di influenza e collocazioni personali nelle istituzioni.

Fatto sta che invece di una fioritura creativa e libera di nuove analisi e nuovi approdi, il confronto interno si è insterilito, si è fatto più schematico e autoreferenziale.

Il binomio libertà e giustizia, alla base della carta dei valori e del programma del Pd, indicò la necessità di una lettura innovativa delle contraddizioni dello sviluppo nell’Occidente.

Si può forse discutere sull’ispirazione del Lingotto. A vedere come stanno oggi le cose, esso appare, per certi aspetti, ancora troppo legato all’esperienza della terza via di Blair.

Ma non vi è dubbio che fin dall’inizio la spinta ideale del Pd si concentrava sia sulla libertà che sull’uguaglianza.

Ogni manovra politica, tattica e il rinnovamento dei contenuti si basava su una vera empatia con le sofferenze e le difficoltà dei cittadini e su una volontà di riscatto dell’Italia. Si guardava alle forze più innovative e all’insieme dei ceti produttivi, ma erano costantemente presente gli ultimi. È stata una cifra inconfondibile di Veltroni.

A me pare che tale empatia si sia fortemente attenuata.

Non parlo dei nostri governi, che pure hanno fatto cose importanti per alleviare le condizioni dei ceti più deboli. Parlo dell’insieme del nostro movimento in tutte le sue articolazioni.

Sembra prevalere una attenzione, pure necessaria, sui risultati macroeconomici, sul Pil, sull’export, sui punti avanzati del sistema italiano.

Tutte queste sono cose dalle quali non si può prescindere; ma ci dicono poco sulla condizione reale dei cittadini.

Tant’è che in questi dieci anni del Pd, che è stato sia all’opposizione che al governo, sono aumentate le differenze tra i ricchi e i poveri; è cresciuto il tasso di povertà e al contempo sono cresciuti i profitti, soprattutto accaparrati da una rapinosa finanza; si sono create zone di abbassamento delle aspettative di vita, dovute a uno scadimento dei servizi, in particolare quelli della sanità pubblica.

È del tutto evidente che qualsiasi politica di un soggetto di sinistra, seppure di una sinistra che si definisce nuova, deve mettere al centro della sua azione il ribaltamento di questa situazione.

Altrimenti avrebbe ragione Panebianco nel sostenere l’inutilità della storica contrapposizione tra destra e sinistra. E tutto si dovrebbe racchiudere nella differenza tra una società chiusa e una aperta. Ma al contrario, secondo me, queste ultime due categorie non danno conto circa la qualità dell’esistenza delle persone: ci può essere una società aperta ma incapace di governare, umanizzare, correggere attraverso la politica le ferree leggi del capitalismo, che sono l’accumulo di ricchezza privata senza se e senza ma.

Il Pd, questo è stato per anni il mio assillo, nasceva anche per recuperare un ritardo storico della sinistra italiana. Dopo il ’92 non siamo riusciti, infatti, a sostituire la funzione svolta dai partiti di massa nei trent’anni gloriosi della democrazia italiana.

Quei partiti furono, fino al loro rapido degrado, un formidabile canale di trasmissione tra il popolo e il potere, tra le istituzioni e l’opinione pubblica, tra le decisioni di vertice e una volontà partecipativa delle masse. Per anni, dopo il loro crollo, abbiamo avuto solo stentate riforme istituzionali, in qualche caso confuse e complicate; in particolare riguardo agli enti locali.

Non c’è stata nessuna vera riforma del partito; e ci siamo chiusi in quel riformismo dall’alto e di governo che ha fatto tante cose buone, ma che certamente, tranne in alcuni rari momenti, non ha suscitato partecipazione, adesione e speranza duratura nella maggioranza dei cittadini italiani.

Da qui l’irrompere del populismo e dell’astensionismo elettorale.

Il Pd nacque, lo ripeterò all’infinito, non solo per unire diversi pensieri, ma per farli vivere in una forma del soggetto politico del tutto nuova; in grado di sperimentare forme di partecipazione diretta, valorizzare i singoli militanti o elettori e non gli apparati e le disciplinate appartenenze.

Lo statuto del Pd, da alcuni così bistrattato, in verità contiene spunti preveggenti e indicazioni che sarebbero state, se praticate, utilissime per affrontare le successive ondate della cosiddetta “antipolitica”.

È inutile infierire sulla condizione attuale della struttura del Pd, che tutte le persone in buona fede che vi militano, soffrono quotidianamente.

Mai come in questi anni è aumentata la divaricazione tra la politica e la gente.

Nelle varie manifestazioni, ho proposto di tornare allo spirito iniziale del Pd, di sperimentare forme di democrazia diretta sulle scelte politiche, di non limitare l’attività delle nostre democratiche e dei nostri democratici alla sola propaganda, a votare nei congressi e poi a gestire (questo è stato detto!) le sezioni come fossero bocciofile.

Al contrario occorre una cessione di sovranità dall’alto verso il basso per portare la bellezza della decisione politica, la sua produttività e “spigolosità”, tra i nostri iscritti e nell’elettorato, non lasciandola solo agli stati maggiori.

Il Pd, al momento della sua nascita, dichiarò d’impegnarsi per stabilizzare l’alternanza di governo tra le forze di centrosinistra e quelle di centrodestra. Anche questo obiettivo, grazie a leggi elettorali incomplete, improvvisate o furbescamente sbagliate, oggi appare più lontano rispetto a dieci anni fa.

Purtroppo una parte della sinistra ha dimostrato una notevole cecità nel favorire il No al referendum, che sarebbe stato un passo in avanti verso il bipolarismo.

E oggi, quella stessa parte di sinistra, pare a me ancora più miope nel non cogliere lo spazio, seppure ridotto, di maggioritario che è contenuto nella proposta di legge elettorale di Rosato.

L’alternanza, tuttavia, non si determina solo con le leggi istituzionali o elettorali; si determina, innanzitutto, attraverso la politica.

In questo senso, penso che l’ambizioso obiettivo del Pd di costruire una formazione politica che tendesse a conquistare la maggioranza degli italiani, sia stato declinato da Renzi per troppo tempo come una corsa solitaria del nostro partito e del suo leader. Come autosufficienza ed esercizio di pura forza.

Mi vengono in mente, a questo proposito, le convincenti parole di Moro a proposito della “vanità della forza” in politica.

La forza a lungo andare distrugge e non costruisce. Reprime e non convince. Dà soddisfazione al momento ma provoca difficoltà raddoppiate nel futuro quando, inevitabilmente, si aprono delle faglie.

Lo spirito maggioritario del Pd deve essere la definizione di un campo largo e plurale; democratico al suo interno e contendibile, nel corso dell’azione politica, in ogni momento.

Vedo che oggi tutti parlano di “campo”. Penso di essere stato tra i primi a indicare questa immagine come la più adatta per costruire un Pd in grado, insieme a tante altre forze, di competere per il governo con il populismo e la destra.

Con il suo ultimo discorso in direzione, Renzi ha aperto una riflessione che va sulla strada giusta.

Ma ripeto: oltre a favorire la creazione di liste di sinistra e di centro in grado di allargare le alleanze del Pd (Pisapia e Calenda), occorrerebbe, a partire dalla conferenza programmatica, cambiare radicalmente il regime interno di vita del partito.

Troppo imperiale al centro (anche se si sono affermate nuove voci e personalità) e troppo feudale nei territori: a scapito della tanta brava gente che ancora si impegna e ci crede.

Le mie possono apparire considerazioni troppo pessimiste. Voglio dunque concludere con un accento positivo.

Nonostante i colpi subiti e gli errori compiuti, il Pd si è impiantato come la prima forza (in competizione con Grillo) della democrazia repubblicana.

Gli attacchi sono stati terribili, così come i tentativi di eliminare, anche per via giudiziaria, alcuni nostri popolari dirigenti politici, a partire dal segretario.

Semmai, oggi che siamo apprezzati nei sondaggi attorno al 30% appare ancora più autolesionista (lo sostenni con forza anche allora) la delusione che ci fu per quel 34% conquistato da Veltroni in pochi mesi, alle elezioni politiche del 2008.

Con una forza come la nostra, comunque, si può intraprendere ogni cammino e il futuro sta davvero nelle nostre mani.

Ma c’è un’altra nota positiva: andando in giro mi capita di incontrare qualche giovane, mi rendo conto che vuole essere libero/a, autonomo/a, appassionato/a e anche critico/a.

È come se stesse crescendo nella nostra pancia, parallelamente ai nostri riti, alle correnti irreggimentate, ai grandi e piccoli cenacoli che tengono le redini delle istituzioni e del tesseramento, una “creatura” nuova; che oggettivamente porta con sé occhi limpidi, mente sgombra e una notevole capacità di ricerca intellettuale, di esperienza umana e di pratica politica comunitaria. Decisivo è non soffocarla. Non sono i ragazzi che si mettono le magliette gialle su indicazione della segreteria. È un grandissimo magma carsico che si sta diffondendo in modo spontaneo in tutte le nostre articolazioni di base.

Cerchiamo di aiutarlo ad affermarsi, con decisione, seppure con mano attenta, rispettosa e leggera.

 

Cordiali saluti

Tonino Armata