The Italian Way è un documentario di Luigi Maria Perotti che ho visto svilupparsi,nascere e crescere.

Ho già raccontato qui il suo contenuto, non sconosciuto al pubblico di San Benedetto del Tronto, che ha potuto assistere ad una sua anteprima nazionale all’interno del San Benedetto Film Fest ad agosto (il film è stato proiettato fuori concorso). Ora, però, che è iniziato il suo tour internazionale, sento di dover tornare a scriverne. Perché la sua
prima tappa a San Francisco mi ha svelato un pubblico nuovo.

Si tratta del pubblico americano: indubbiamente un pubblico particolare. Il giorno prima della proiezione avevo assistito ad uno spettacolo al War Memorial Opera House di San Francisco: un’opera lirica. Avevo già capito osservando le reazioni in sala, che il pubblico americano davanti allo show si impone con una presenza molto più sfrontata di quella a cui noi italiani normalmente siamo abituati. Ho avuto la stessa impressione alla proiezione del documentario di Luigi Maria all’Istituto italiano di cultura. Un pubblico attento, ma piuttosto ‘rumoroso’, che rideva divertito, che faceva battute sopra i dialoghi.
Una platea più scomposta rispetto ai nostri standard, ma che sicuramente, volente o nolente, ti restituisce il polso della fruizione. Ad assistere alla proiezione il 21 settembre c’erano in gran parte italo-americani nati e cresciuti in America, ma non solo. Molti erano gli appassionati della nostra cultura e gli amanti della nostra lingua. Persone cresciute a pane e stereotipi, che hanno apprezzato una ventata di contemporaneità, ed hanno accolto ogni singolo dialogo come uno stimolo per confrontarsi con parte della loro natura.
Mi ha colpito molto uno dei primi interventi al termine della proiezione di un uomo sulla sessantina, che dopo aver visto in una scena del film uno dei co-protagonisti fare le parole crociate, ha usato questa metafora per far capire cosa significhi essere italo-americano oggi. Dopo tanti anni in America, infatti, continuava a non essere in grado di svolgere le parole crociate americane, ma non riusciva neanche più a fare quelle italiane. Perché aveva perso il contatto con la contemporaneità del nostro Paese; perché l’Italia di oggi è un Paese nuovo, che cambia velocemente anche per chi lo abita. Figuriamoci per chi lo vede e legge da lontano! A questa osservazione ha replicato uno dei protagonisti del documentario presente in sala, Fabrizio Capobianco, da molti anni ormai in America, che alla condizione di apolide preferisce sostituire quella di turista in casa propria. Un modo per continuare a sentirsi italiano, ma godendo solo dei pregi di sentirsi tale.

The Italian Way è piaciuto tantissimo, ma contemporaneamente ha scatenato molte osservazioni, in noi della produzione, ma anche nella ricezione. Ciò che ho capito è che essere italiani nasconde indubbiamente un modo di osservare la vita singolare. La proiezione del documentario fuori dall’Italia mi incoraggia a sostenere che non possiamo comprenderlo appieno se non ci osserviamo dall’esterno. Come fanno gli emigrati, o gli amanti della nostra bella vita. Non ci rendiamo conto di quanto sia imbrigliato in schemi stantii ciò che viviamo, se non chiediamo agli altri di farci mettere in discussione. Il pubblico americano, in questa occasione, mi ha insegnato qualcosa. E mi auguro che Luigi Maria accolga la loro
richiesta più insistente: far nascere una serie da questo primo episodio.