SAN BENEDETTO DEL TRONTO – “Il secolo di Angelo” è un libro di memoria e gratitudine. La storia della realtà marchigiana, vista attraverso gli occhi di una famiglia. Tre generazioni in balia di vicissitudini, difficoltà, voglia di riscatto, in un percorso che si snoda lungo tutto il novecento.
Fania Pozielli, già autrice del noir “I gabbiani non parlano”, con il suo secondo romanzo propone un nuovo viaggio nel passato: con un taglio narrativo costantemente sospeso tra realtà ed immaginazione, la scrittrice racconta le vicende della sua famiglia, dai bisnonni ai genitori, in un secolo di grandi cambiamenti.
Le condizioni dei mezzadri di inizio novecento, le due guerre mondiali, la ripresa economica, fanno da sfondo ad un’intensa saga familiare, unica ed insieme universale, che Pozielli ha ricostruito cucendo insieme ricordi, aneddoti e voci.
“Il secolo di Angelo” parla di povertà, emigrazione, ma anche di amore e impegno, e di una stirpe che, nonostante tutto, è cresciuta e proliferata nel mondo. Un romanzo, se vogliamo, anche celebrativo, attraverso il quale l’autrice ringrazia i suoi predecessori per aver lottato e costruito le basi su cui poggia.
L’opera, presentata con successo al Salone del Libro di Torino, è vincitrice del premio “Un libro per Arquata”, organizzato dall’associazione Omnibus Omnes. Attualmente è in vendita presso la Bibliofila, Eclet-tica, e online sul sito Marcheplace.biz.
La storia delle Marche sembra essere il suo tema di scrittura preferito. Come ha avuto l’idea di dedicarsi al passato?
“Il tema delle Marche è davanti ai miei occhi, e dentro il mio cuore. Fa parte della mia vita. Suppongo che la maggior parte degli scrittori parlino soprattutto di ciò che conoscono meglio, che amano di più. Il modo di vivere tipico marchigiano è parte integrante dei miei personaggi, così come i paesaggi di San Benedetto sono importanti nell’intreccio del mio primo noir, “I gabbiani non parlano”. Ne “Il secolo di Angelo” le ambientazioni principali sono Castignano e Lisciano, paesi di origine dei miei bisnonni, seguiti da diverse altre località; la mia è sostanzialmente una famiglia di mezzadri, e la loro storia si snoda attraverso molti paesini delle Marche, fino ad approdare a San Benedetto, dove i miei genitori si sono conosciuti. Tutto questo fa parte del racconto perché fa parte della mia vita”.
C’è qualche evento particolare che l’ha spinta a diventare scrittrice?
“Credo di aver voluto scrivere da sempre, da quando so scrivere. Da bambina avevo un libro dove inventavo fiabe e poesie, poi sono passata ai diari. La scrittura mi ha permesso di esprimere i miei sentimenti più profondi, cosa che magari altri fanno dipingendo, suonando, o impegnandosi nel proprio lavoro; la creatività ha sempre bisogno di una valvola di sfogo. Dalla scrittura per svago alla stesura di romanzi, però, è passato circa mezzo secolo. Nel frattempo ho seguito il percorso della mia vita, ho lavorato, messo su famiglia. Poi, a cinquant’anni, mi sono ritrovata con il manoscritto del mio primo libro, che avevo già completato da qualche anno, e finalmente ho avuto il coraggio di sottoporlo al giudizio di un esperto del settore. La risposta, a più voci, è stata all’incirca: “Ma che sei stata a fare finora?!”. Questo è stato molto gratificante”.
Dai racconti de “Il secolo di Angelo” si evince che lei apprezza tutti i sui parenti. Ne ha uno preferito? Un nonno, uno zio, un cugino, con cui magari condivide un ricordo particolare?
“Sì, in effetti sì. Preferito è una parola un po’ impegnativa, perché chiaramente quando si parla di parenti stretti è normale amarli moltissimo. Però c’è un mio zio, che nomino anche nel libro, che considero una figura di riferimento. Era il fratello di mia madre, e penso fosse “lo Zio” che tutti vorremmo avere. Quasi un compagno di giochi, un tipo molto moderno, che noi ragazzi ammiravamo e cercavamo per passare del tempo insieme. Nonostante io e lui avessimo idee diametralmente opposte, in ambito religioso, politico, nel modo di affrontare la vita, c’era comunque un dialogo; ci scontravamo per le nostre divergenze, ma ne parlavamo in modo costruttivo. C’era quindi uno scambio generazionale, che considero tuttora molto positivo”.
Nel suo ultimo libro si parla molto di amore; da questo punto di vista, lei sembra trattare i suoi personaggi innamorati con molta comprensione, anche se non si comportano sempre nel migliore dei modi. Secondo lei c’è qualcosa che invece non può essere perdonato? Qual’è la sua idea di amore ai nostri giorni?
“Non è semplice rispondere. L’amore comprende una sfera ampissima di sentimenti e rapporti. Io credo che in amore non si possa perdonare l’egoismo, perché in fondo l’egoismo è proprio la negazione dell’amore. Se si fa qualcosa per amore, si deve cercare di soddisfare prima di tutto l’altro, poi se stessi. Anche nel romanzo, nonostante sia comprensiva con i miei personaggi, all’egoista il destino infligge comunque una punizione ragguardevole. Secondo me, regalare amore porta a riceverne sempre di più. In termini più ampi, cercare di rendere felici gli altri non è una forma di prodigalità emotiva, ma un sistema per essere sempre più felici. Noi marchigiani tendiamo ad essere un po’ avari nell’esprimere i nostri sentimenti, per una questione di educazione più che altro. Io invece penso che dovremmo dimostrare di più il nostro affetto verso chi ci è vicino, sia con le parole che con i fatti”.
A questo proposito, nel libro le azioni peggiori sono state riservate a personaggi inventati. Escludendo fatti gravi, stupisce un po’ che nel libro manchino errori, incidenti, commessi magari dai suoi parenti da bambini. Escludere queste vicende è stata una scelta dettata dalla privacy, oppure si tratta di un preciso espediente di scrittura?
“I personaggi che ho inventato, per esempio Anastasia, raccolgono in loro una summa di tutti gli errori, di tutti i “peccati” che nello scorso secolo erano ritenuti i peggiori. Questi, considerati indicibili, si sussurravano di bocca in bocca, e non avevano mai un protagonista preciso. Chiamiamolo senso del pudore, era di fatto un modo di pensare abbastanza inutile, e anche ingiusto, perché spesso erano le donne a pagare il prezzo di determinate scelte. I caratteri che ho inventato esprimono a tratti anche i difetti e gli errori di persone reali, anche dei miei parenti, ma per rispetto della memoria ho ritenuto più giusto non associarli a nessun individuo preciso. Certo, ho tratteggiato i miei parenti con benevolenza, ma il mio intento era soprattutto quello di esaltare i loro lati positivi, che erano tanti. Se io sono qui adesso, lo devo a quanto hanno fatto di buono le generazioni precedenti. Mi ritengo grata per l’impegno e i valori che mi hanno tramandato, credo che tutti dovremmo apprezzare le nostre famiglie per questo”.
“Il secolo di Angelo” racconta molti episodi intensi; alcuni felici, altri meno, ma in generale descritti con ottimismo. Lei si definisce una persona ottimista nella vita di tutti i giorni?
“Sì, diciamo che mi propongo di essere sempre ottimista. Ho il brutto difetto di essere ansiosa, per cui se da un lato sono ottimista, dall’altro ho sempre tante preoccupazioni. Sono anche abbastanza fatalista, quindi immagino sempre il peggio, anche se sembra una contraddizione. Penso però che l’ottimismo sia importante nella vita, a volte è indispensabile pensare che anche una situazione cominciata male può volgere al meglio. Se così non fosse passeremmo la vita a piangerci addosso, e questo non ha proprio senso”.
Come definirebbe il suo stile di scrittura? C’è un qualche scrittore a cui si sente affine?
“Ispirata non direi, ma ho i miei scrittori preferiti. Amo molto i romanzi scritti da donne, nella mia prima adolescenza ho molto apprezzato Grazia Deledda. Poi ci sono Oriana Fallaci, Margaret Mazzantini, Susanna Tamaro. Diciamo che il mio stile di scrittura cerca di essere sempre attinente alla realtà. Non uso mai un registro aulico, o una sintassi complessa; parlando di gente povera, semplice, occorre un linguaggio che sappia descriverla al meglio, senza giri di parole. Frasi pulite, che vadano dritte al punto, è quello che mi piace ottenere. Molti mi dicono che ho una scrittura fluida che si legge in breve tempo; effettivamente, i miei sono due libri bonsai. Non perché ho cercato di condensare la trama, semplicemente ho evitato di dilungarmi in dettagli che considero inutili”.
Quali sono i suoi progetti per il futuro? Ha intenzione di scrivere altri romanzi?
“Al momento mi sto dedicando alla promozione de “Il secolo di Angelo”. Questo libro ha avuto un percorso molto fortunato: ancora prima della pubblicazione ha vinto il concorso della Omnibus Omnes “un libro per Arquata”, per il capitolo in cui ho parlato di Capodacqua. In seguito l’ho presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino, dove è stato accolto con un discreto successo. Ora sto organizzando diverse presentazioni in vari paesi della zona. Per il prossimo romanzo ho un progetto nel cassetto: si tratta di una biografia che dovrò realizzare con un collaboratore; parlerebbe della vita di un soldato in viaggio per il mondo, una persona che ha visto molti lati dell’umanità. La storia sarà ispirata a fatti veri, ho intenzione di dargli un taglio molto realistico. In questo momento, però, rimane un’idea ancora fumosa”.
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