Ricordate l’antiberlusconismo? Quasi due decenni (dall’autunno del 1993, quando Silvio annunciò la famosa “discesa in campo”, alle dimissioni a suon di speculazione finanziaria nel 2011) trascorsi con interminabili sedute collettive di autoanalisi indirizzata verso il nulla.
Il conflitto di interessi, che da problema principale della Storia Italiana improvvisamente non interessa più a nessuno; le tensioni con i giudici; le barzellette imbarazzanti, il bunga bunga, l’intesa casereccia per Bush e Putin. E via discorrendo.
Poi la boccata d’ossigeno, temporanea: sembrava, dopo la sua temporanea eclissi, che si tornasse a parlare di politica-politica, improvvisamente. Ma non è crollato Berlusconi: lui nel 2013 diede un colpo di coda impensabile alle elezioni, ora galleggia a livello della Lega e se pur dovesse compiere una ennesima remuntada, difficilmente sarà equiparabile a quanto avvenuto.
Il problema più grande del crollo berlusconiano, tuttavia, va ricercato nel campo avverso, quello dell’antiberlusconismo militante. E chi in quegli anni s’era fidato (ingenuamente?), tra girotondini, il mito sgretolato della società civile, il ceto medio riflessivo (dov’è?), campagne referendarie su acqua pubblica e nucleare, Genova G8, Roma anti-austerità 2011, improvvisamente vedeva il proprio spazio svuotarsi.
L’anti-berlusconismo li aveva tutti salvati dal vuoto politico che avevano dentro. Anni di destra finanziaria al governo del paese, di Troika minacciata, di letterine di banchieri da Francoforte con programmi di governo eseguiti, di macelleria sociale che Berlusconi manco sognava (e gli avversari poi avrebbero realizzato, invece), di modifiche della Costituzione votate da deputati paletta (articolo 81): tutto questo è avvenuto dal 2011 in poi e se la sono squagliata tutti, o quasi.
Nanni Moretti, pop regista dal conto in banca non austero, benediceva Monti; Jovanotti, sgargiante finto sinistrorso pop, ululava allo stesso modo; il Partito Democratico accettava il Fiscal Compact senza dubbi e discussioni. Tutto poteva essere bevuto, come un novello olio di ricino collettivo, perché non giungeva dalle mani zozze di Berlusconi, e allora doveva essere buono naturaliter. “Lasciamoli fare, adesso devono aggiustare: soffriremo, e staremo meglio”: così ragionava nel 2012-13 un pensionato medio, o un ancora benestante italiano sopra i cinquant’anni.
Intanto le nuove generazioni, pur incapaci di creare delle solide basi di resistenza alla dittatura finanziaria in corso, bruciavano: di una rabbia con causa ma senza obiettivi, o di emigrazione.
Eppure oggi c’è un altro salvagente gettato da tempo per la classe politica italiana, quella che non vuole sporcarsi troppo le mani e può ricollocarsi semplicemente creando un altro SuperMostro. Il quale, SuperMostro, è il Renzismo, a cui si contrappone automaticamente l’AntiRenzismo.
Perché il rignanese è ovviamente un facile obiettivo, e chi scrive non gliene ha risparmiata una. Li ha tutti, i difetti di cui lo si denuncia, a cui si sta aggiungendo pure un ingorgo giudiziario tra Renzi padre e Maria Elena Boschi, così ha un’altra stelletta simil-berlusconiana.
Il problema è un altro: l’opposizione a Renzi rischia di essere fine a se stessa. Chi afferma che l’obiettivo è “evitare che Renzi e il Giglio Magico rimettano le tende a Palazzo Chigi”, ha ovviamente delle ragioni ma se attorno a queste non si aggiungono sostanze, risiamo esattamente al 2011.
Così si rischia di non dire nulla, o dire poco. Tutto passa in second’ordine e la sfida politica rischia di diventare una sfida tra apparati all’interno dei quali poi passa lo stesso contenuto ora garantito da Renzi. L’avviso è ovviamente per il M5S che per la politica interna è avviato da tempo ad un confronto a colpi reciproci di onestà e #magliettegialle, ma anche per la sinistra in fase di aggregazione, la quale evidentemente vive una fase in cui l’abituale esterofilia (russa un tempo, blairiana poi) è grandemente appannata considerando che i recenti esempi di Sanders, Mèlanchon e anche Corbyn, per citare i tre principali, non vengono seguiti con il loro coraggio rosso anziché rosé.
Si legga ad esempio il programma di Corbyn, candidato laburista in Gran Bretagna, rispetto ad alcune timidezze italiche sull’articolo 18, che andrebbe riproposto “anche con un 17 e mezzo che dir si voglia”. Dunque: forza e coraggio, fregarsene delle renziane #magliettegialle e ripensare l’Italia da cima a fondo, prendendo anche qualche spunto.
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I sudditi della gran bretagna sono stati chiamati ad esprimere una scelta molto importante, ed hanno votato.
Ora il regno unito potra’ decidere chi resta e chi deve andar via.
Viceversa il popolo sovrano di altre nazioni non puo’ decidere piu’ nulla.
E’ gia’ stato tutto stabilito dall’ europarlamento, che finanziato dai soliti noti
impone scelte gia decise da altri.