Un articolo della storica Vanessa Roghi, pubblicato sul blog culturale “Minima et Moralia” che riportiamo di seguito, e che vale la pena di leggere interamente: “Piccola città. Per una storia culturale dell’eroina” il titolo, tratto dal libro Una città aperta al vento e ai forestieri, a cura del Collettivo Bianciardi 2022, Lecce, Pensa Multimedia, 2016.

Della toccante testimonianza di Vanessa Roghi si è occupata, oggi, la trasmissione di Radio Tre Fahrenheit I Libri e le Idee, condotta da Loredana Lipperini e che ha avuto come ospiti oltre a Vanessa Roghi anche Guido Viale e la scrittrice Silvia Ballestra, autrice nel 2009 del romanzo I Giorni della Rotonda“, ambientato nella San Benedetto fra gli anni Settanta e Ottanta.

Qui la trasmissione: http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-44f69e63-0009-4744-8b67-d143dde32912.html

Di seguito la testimonianza di Vanessa Roghi.

 

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PICCOLA CITTÀ. PER UNA STORIA CULTURALE DELL’EROINA

Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia, sono tuoi.
Bene, Francesco De Gregori, 1974

Guardate questa bambina. Questa bambina sono io.

Ho la piuma in testa e delle foglie in mano. È il 5 settembre del 1976 e Democrazia Proletaria festeggia sul monte Amiata le elezioni del 20 giugno, dove ha preso l’1,5 per cento. Ben 6 deputati. Ma io queste cose non le so. So, però, che c’è babbo che ha dipinto di rosso la porta del PdUP a Grosseto, e a me questo nome, Pdup, mi sembra che rimbalzi.

Il Pdup sono davvero poche persone mentre il PCI ha preso quasi il 35% dei voti. Ma per me il Pdup rappresenta l’orizzonte unico e possibile di quella che è la Politica. Si chiama così. Ha la lettera maiuscola e la porta rossa, e poi la fanno mio padre e i suoi amici, che mi piacciono, perché mi raccontano la Favola di Mao Tse Tung.

La Politica la fanno i maschi, questo lo so, mentre mamma e le sue amiche fanno il Femminismo, che, forse, mi piace pure di più della Politica, perché si canta.

Oltre la Politica e il Femminismo c’è mia nonna che è il Mondo. Per mia nonna il Femminismo non esiste, la politica non ha la maiuscola, e si chiama solo PCI, perché ha avuto un fratello senatore, e ancora mi parla di quella volta nel 1946 quando l’hanno portata a Roma, per festeggiare la Repubblica, e suo fratello non le ha fatto aprire bocca. Ma per lei è un bel ricordo.

Poi c’è la città, che è Grosseto, ma per me è un perimetro che parte dal ponte della ferrovia e arriva a via Orcagna dove c’è la Terra, nonna la chiama così: campi coltivati dove si va in bicicletta dopo scuola per accudire i conigli e le galline, le rose, e c’è la cantina, con le botti e un odore di vino buono.

Così, riassumendo, negli anni Settanta, per una bambina, le Cose che Esistono sono il Femminismo, la Politica, il Mondo e la Città. Linus, in bagno, da leggere. Mentre ancora non ci sono i cartoni animati giapponesi e soprattutto ancora non c’è l’Eroina, che, lei non lo sa, cambierà di lì a poco il Mondo, il Femminismo e la Politica. Ma soprattutto la Città.

Uno

Mio padre ha una storia comune, condivisa dalla sua generazione.
Le storie di ieri, Francesco De Gregori, 1974

Nel 1970 a Roma, secondo Guido Blumir, ci sono soltanto 560 tossicomani al di sotto dei 25 anni. Fra di loro l’eroina è, apparentemente, sconosciuta. A Grosseto, e in tutte le piccole città di provincia, se ne parla ma non si è ancora vista davvero in giro. Eppure in Italia è arrivata fin dall’immediato dopoguerra, ma finché non diventa un caso di cronaca da mettere in prima pagina su un quotidiano nazionale è come se non esistesse. Il caso eccolo: è il 20 marzo del 1970 quando a Roma il nucleo Antidroga dei Carabinieri diretto dal capitano Servolini durante una perquisizione a un barcone ormeggiato sul Tevere, uno di quelli usati per le feste dalla buona borghesia della città, trova un “ingente quantitativo di sostanze stupefacenti”. Il caso diventa un manganello da usare contro i costumi degenerati della società, e i partiti di sinistra con il loro lassismo, da testate giornalistiche come «Il Tempo» che scrive: “Infame centrale del vizio nel cuore di Roma – casa della droga per minorenni in un galleggiante sul Tevere – Sequestrati hashish, eroina, eccitanti, siringhe, alcoolici alterati, ricettari rubati” (21 marzo 1970).

Per la prima volta viene lanciata una campagna contro chi fa uso di droghe. È messo sotto accusa un intero universo simbolico, quello della cultura dei capelloni che, per uno di quei paradossali giri di boa che compie la fantasia dei paranoici e dei fascisti, è imputato alla sinistra comunista che, sappiamo, in quel lontano marzo del 1970, patisce i capelloni e i drogati quanto i conservatori.

Scrive Blumir: “Nasce in Italia la ‘psicosi’ droga: per decine di milioni di italiani la droga diventa un ‘male oscuro’ per centinaia di migliaia di giovani, una tentazione proibita. Solo tre anni dopo l’opinione pubblica viene a sapere, da un dossier di controinformazione di Stampa Alternativa (La droga nera), che la storia del ‘Barcone’ era una truffa. Ma il contraccolpo è devastante: il ‘boom’ clamoroso dell’uso di anfetamina, le iniezioni endovena”.

Nel 1973 esce per Einaudi una ricerca, si intitola Il sistema mondiale della droga, l’hanno scritta due ricercatori francesi Catherine Lamour e Michel R. Lamberti, sotto pseudonimo. Il loro è uno sguardo sui meccanismi economici che sottostanno alla diffusione dell’oppio.

Ne ho una copia che conservo da anni, a matita c’è scritto il nome della sua prima proprietaria che chiamerò Anna, e la data, 1975.

Anna abita a Grosseto, ha iniziato a farsi eroina qualche anno dopo aver letto questo libro. Nel 1979.

Mi colpiscono le sue sottolineature: la prima, quella su cui mi soffermo leggendo la frase più volte, è questa: “Tra tutte le droghe conosciute e diffuse nel mondo, l’eroina è la più pericolosa, perché crea in chi la usa uno stato di dipendenza fisica e psicologica che rende rapidamente schiavi”.

Perché, dopo averla sottolineata, capita, pensata, Anna ha iniziato a farsi? Forse la risposta sta nella sottolineatura successiva: gli autori infatti definiscono il profilo del drogato: “Si può considerare realmente intossicato chi dedica gran parte del proprio tempo e delle proprie energie a trovare la droga, a pensare ai mezzi per procurarsela, a usarla e a parlarne, o chi tende a reagire ai problemi che gli si pongono prendendo la droga”, forse la risposta sta in questa frase. Anna non si considererà mai una drogata, perché non avrà bisogno di dedicare tutte le sue energie a pensare ai mezzi per procurarsi l’eroina, potrà continuare ad avere un lavoro, relazioni sociali, umane, che prescindono dalla sua dipendenza. Non reagirà ai problemi che le si porranno con un buco. La droga sarà per lei una piacevole compagna di vita. Lo stile di vita dell’eroinomane è considerato uno stile di vita suicida: l’intossicato perde peso, non mangia, è esposto alle infezioni, muore. L’ipotesi che si possa convivere con l’eroina per una vita non sfiora minimamente la mente degli studiosi, o meglio, la loro comunicazione, c’è sempre un intento pedagogico. L’eroinomane diventa pericoloso: ruba, aggredisce i passanti, uccide.

Anna, a Grosseto, non ha mai aggredito i passanti, non è morta di Aids, ha avuto un figlio. Forse ha rubato, forse no, non ne ha avuto bisogno. La sua è una famiglia benestante. Anche quella di mio padre, nel 1975, lo è.

Due

Se è proibito raccontare una cosa, capisci anche tu che fatalmente c’è solo quella che si voglia e si debba raccontare.
La vita come un romanzo russo, E. Carrère, 2009

Quando arrestano mio padre per spaccio di eroina ho 15 anni, frequento il ginnasio, nell’unico liceo classico di Grosseto. Un liceo di provincia, frequentato dai figli dei professionisti della città. Quando lo arrestano io non dico niente a scuola. Non trovo le parole per farlo, non credo di averle neanche cercate, è qualcosa che accade, e basta.

Quando le cose accadono a me io non so come raccontarle. Per questo faccio la storica, racconto le cose che accadono agli altri, eppure questa di mio padre voglio raccontarla, così inizio a parlarne con gli altri, ma solo all’università, quando mi sento ormai protetta dalla distanza, ne parlo e ne parlo, e una giovane storica senza immaginazione si domanda se sono matta ad andare a dire in giro che mio padre si è fatto eroina.

Perché questa è una cosa che non si racconta. Non è neanche un fatto degno di storia. È una piccola storia ignobile. Telefono a Nanni Balestrini, cerco la forma da dare a questa storia, per non sembrare matta neanche agli stupidi e ai conformisti, per trasformare in storia la vita di una generazione.

“Pronto? Buongiorno, mi chiamo Vanessa Roghi, sono una storica, parlo con Nanni Balestrini? Salve, si mi scusi il disturbo, mi ha dato il suo numero XXX posso farle una domanda? Grazie: senta sto facendo una ricerca sulla storia dell’eroina in Italia, volevo chiederle se potevamo incontrarci per parlarne.

NB: Su cosa scusi?

Io: L’eroina, la droga. Una ricerca storica, ma anche autobiografica. Vorrei parlare con lei della diffusione dell’eroina nel Movimento.

NB: Mah non saprei, non ricordo, non ho mai avuto esperienza.

Io: Ma no certo, non parlo certamente di lei, solo che il suo occhio attento, e le cose che ha scritto, beh mi fanno pensare che magari qualche idea se l’è fatta.

NB: No, guardi, veramente no.

Io: Neanche per fare due chiacchiere?

NB: Risentiamoci magari mi viene in mente qualcosa e le dico.

Io: Va bene grazie.

Trent’anni per pensarci. Forse, queste note, dovrei intitolarle così. In tanti, infatti, mi rispondono allo stesso modo: “Mah non saprei, non ricordo”. Oppure, semplicemente, non rispondono alle mie mail, lasciando cadere a vuoto richieste di appuntamenti. Unica eccezione i preti e i poliziotti. Già, perché la storia dell’eroina in Italia è una storia di assistenza o di crimine. Mai una storia sociale o culturale, e politica lo diventa soltanto quando si parla di complotto. Se fossi stata figlia di un terrorista, di una vittima degli anni di piombo, tutto sarebbe più facile, da un punto di vista narrativo si intende, perché di canoni, storiografici, autobiografici, letterari, sull’eroina non ce ne sono se si esclude, ovviamente, Andrea Pazienza che ha lasciato il romanzo dell’eroina più importante scritto in Italia. Ma io non so disegnare.

Così continuo a cercare una forma.

Ripenso al momento in cui mio zio mi dice: hanno arrestato Mauro. Non è uno shock. Certo mi colpisce il fatto del carcere non scoprire che si droga: le droghe sono qualcosa che ho visto crescere intorno a me, hanno un aspetto familiare. Ho il narghilé in casa, da bambina credo che ce l’abbiano tutti.

Tre

Gli amici del campetto, passati dalle Marlboro direttamente all’eroina alla faccia delle droghe leggere.
Robespierre, Offlaga disco pax, 2005

Grosseto è una piccola città. Come Latina come Bergamo.

Non c’è niente di interessante: le mura con i bastioni la circondano, ma non tutta, mica siamo a Lucca. Sta al centro della Maremma, lontana da tutto; non ha un’università, non ha fabbriche, ma un (recente) passato contadino che dalla bonifica alla riforma ha ridisegnato i confini delle terre allagate intorno a partire dal diversivo, che chiude la città a nord, fino alle quattro strade, che ne segnano il limite estremo a sud. Nel mezzo casette, strade ordinate, qualche viale residenziale, qualche quartiere dove i nuovi ricchi, quelli nati dal boom edilizio, come noi, i Roghi, sono andati a stare. Come viale Giotto.

A viale Giotto la droga arriva un po’ per volta. Febbraio 1968. Babbo e M. sono andati alla sala Eden, a ballare, devono vedersi con un gruppo di ragazze, andare a passeggiare sul corso, poi in macchina fino a Orbetello. È un gelido pomeriggio. Mamma e G. non sono andate a scuola.

Devono vedere Florenzo che è bello come Jim Morrison.

Ha i capelli lunghi. Un vecchio del PCI l’ha picchiato sul corso per questo motivo, perché è un capellone. Ha con sé tre pasticche bianche. Le ha portate da Istanbul dove è stato fermato dalla polizia.

«Il Telegrafo» non si fa scappare la notizia (il cognome, l’indirizzo li ometto io, non il giornale che nel 1970 pubblica tutto) 9/07/1969: “Indagini dopo l’arresto ad Istanbul di un grossetano. ‘Il padre del ragazzo sconvolto nell’apprendere la notizia del fermo’: la squadra mobile della nostra città ha aperto una serie di indagini interrogando vari giovani grossetani, dopo l’arresto avvenuto ad Istanbul dello studente Fiorenzo N., 20 anni, residente in via XX, che secondo notizie pervenute tramite il consolato italiano di Istanbul, è stato arrestato dalla polizia turca in un locale dove si faceva di droga. La polizia sta svolgendo accertamenti fra gli amici del N. (l’ambiente dei capelloni locali) per accertare, secondo voci da tempo circolate, se in alcuni ambienti frequentati da giovani grossetani sia consumata la droga. Il Dottor Valentini della Mobile con il maresciallo Mugnani, stanno attivamente indagando dove oltre a numerosi giovani circolano anche ragazze di buona famiglia. Particolarmente presi di mira i frequentatori di alcuni bar del centro. Intanto si è appreso che la madre di N. aveva tenuta nascosta la notizia al marito. L’uomo, appresala per caso, è rimasto sconvolto”.

La città è indignata. Ragazze di buona famiglia che frequentano l’ambiente dei capelloni locali. La città si organizza, prende provvedimenti, primo: cercare una metafora.

Da «Il Telegrafo», 27 aprile 1970. CONTRO LA DROGA. “il mostro della droga è un drago che neppure S. Giorgio cavaliere potrà mai uccidere – Tocca a noi combatterlo, per la causa dello sport”.

“GROSSETO 27. Nella riunione conviviale del Panathlon club di Grosseto, tenutosi all’albergo Lorena, alla presenza di numerosi soci, ospite d’onore è stato il gr. Uff. Sisto Favre. Il dottor Favre ha permesso che una serena esplosione di idee ed iniziative alla vigilia dei giochi olimpici di Monaco, non è possibile svolgerla sotto l’angosciosa impressione prodotta dalla universale sciagura del giorno: il mostro della droga. Un drago che nessun San Giorgio cavaliere potrà mai uccidere. Dobbiamo eliminarlo noi, uomini combattenti per la causa dello sport, per la causa di Olimpia, e per tanto per la causa dello spirito che anima e nobilita la creta umana e la rende degna della sopravvivenza nei secoli dei secoli e della Provvidenza di Dio”.

Ovviamente, con simili nemici, la droga a Grosseto dilaga. Prima arriva l’hashish dall’Afghanistan. È il 1973. Da un anno sono nata io. Nel grande salone, sotto il tavolo color avorio muovo i primi passi mentre sopra il tavolo girano le prime canne.

Quelli de «il manifesto» aprono una sede a Grosseto. La porta è di legno rossa. L’hanno colorata Babbo e M. È in via dell’Unione, dove prima era il PdUP, frequentata da vecchi socialisti e da giovani delusi dal PCI che governa la città da sempre. L’hashish è arrivato anche fra di loro. Si organizzano incontri sull’argomento. Il Circolo Culturale Popolare invita Guido Blumir, autore della prima inchiesta di controinformazione sull’uso delle droghe in Italia. Il tema è: le droghe leggere sono rivoluzionarie, le droghe pesanti non lo sono. Scoppia il tafferuglio.

La stampa di Grosseto continua con la sua strategia discriminatoria. Si pensa che servano degli specialisti per risolvere “il problema”.

A Lattaia nasce una comune. Si dice che la fondatrice sia la compagna di un re dell’oppio del Marocco. Io ho 4 anni. La comune è un luogo meraviglioso dove non bisogna andare a letto presto, dove per dormire c’è chi mi racconta le favole, quella di Mao Tse Tung.

Lattaia è in fondo alla dritta di Roccastrada. Da lì la piccola città appare un punto lontano, perso nella pianura. Un luogo grigio dove non tornare. Dove a scuola mi chiedono quale sia la professione di mio padre lasciandomi a doverne inventare una. Dove gli altri bambini non possono giocare con me perché figlia di genitori separati. Un luogo grigio, conformista. Racchiuso fra mura che non delimitano nient’altro che noia.

La mia casa però è bella. E grande. C’è una libreria. Imparo a memoria i titoli dei libri di mia madre: La morte della famiglia di Cooper, I fratelli di Soledad, Autobiografia di Malcolm X, Do it Now mi attira molto perché ha una copertina tutta piena di fiori. La mia libreria: Dalla parte delle bambine, Arturo e Clementina, Alice nel paese delle meraviglie, Charlie Brown. L’Enciclopedia è Io e gli altri, alla S il lemma “Strage di Stato” alla P, “Pinelli”, alla D, “Democrazia Cristiana”.

La sede del manifesto ora è in Strada Ginori ha la porta rossa come pure il pavimento, l’hanno fatta babbo e M. usando i vecchi scaffali della libreria Feltrinelli di via dell’Unione.

È una via di mezzo fra il movimento politico e un circolo culturale popolare. Fra gli altri c’è Roberto Ferretti, antropologo e disegnatore, i suoi disegni mi fanno paura e mi attraggono da bambina. Poi ci sono vecchi socialisti in rotta con il PCI. M. mi racconta: “Mi ricordo che dissi che l’hashish e l’erba erano rivoluzionarie scandalizzando i compagni socialisti. Al nostro interno però c’era chi non era d’accordo. M. T. per esempio che faceva il sinistro, quello di Lotta Continua, caldeggiava l’ipotesi di fumare l’oppio e l’eroina. Mi ricordo che portò l’eroina e diceva che fumarla non faceva male, era differente. Poi a un certo punto si venne a scoprire, insomma circolavano delle voci, ce n’era una che sosteneva che quest’eroina arrivava dalla capitale ed era legata a un giro di soldi e di armi. Si contattò il sostituto procuratore della Repubblica. A noi c’era arrivata perché c’era qualche scoppiato, Snoopy che ora è morto che parlava di questa casa a Principina dove giravano soldi e eroina e con un altro, non mi ricordo il nome, ma figlio di uno che poi ha fatto belle battaglie contro l’eroina. Quindi come circolo si cercò di ostacolare ma ci si mosse male, e l’eroina dilaga a Grosseto”.

È il 1978. In molti hanno deciso di provarla. In molti passano da casa dove abito con mamma, ma anche con i suoi amici che rimangono lunghi periodi da noi. Una mattina trovo in bagno una siringa piena di sangue. Mamma decide che la convivenza con loro non è più possibile, ma io non comprendo il motivo. Mi piace stare con tante persone. Mi piace avere sempre adulti intorno, anche se nessuno sembra accorgersi della mia presenza.

Personaggi reali e immaginari popolano la mia casa.

C’è il Gatto lupesco che invia a casa mia lettere anonime nelle quali, in rima, minaccia di far sparire tutti i freaks da Grosseto. Il Gatto lupesco conosce le abitudini del gruppo, è molto preciso nei dettagli, mia madre si spaventa, soprattutto perché ci sono io con loro. Ne parla agli amici, allora il Gatto lupesco scrive una lettera nella quale dice che non ce l’ha con i bambini. Ce l’ha solo con i drogati.

Di fatto nella città inizia un attacco moralistico contro ogni diversità, contro le donne, i gruppi giovanili e i tossicodipendenti portato avanti da tutti, ma soprattutto dai compagni che vedono nell’eroina un elemento di disgregazione culturale e politica.

La città guarda con timore e giudica i figli degenerati che hanno tempo per tutto anche per buttare via la propria esistenza, elabora strategie di contenimento del fenomeno: nascono i primi centri di recupero seppur demandati alla volontà di singole personalità, tra le quali Don Enzo Capitani, fondatore della prima comunità aperta di recupero. L’idea è quella dello spazio a misura d’uomo mutuata da Franco Basaglia, che contesta l’esclusione dei drogati, la segregazione della malattia, la sua separazione dal tessuto sociale. Tenere i tossici al centro della città, rendendo le loro famiglie parte del percorso di cura e di recupero. Ma la città non è d’accordo. Netta deve essere la distinzione fra normalità e devianza.

Gli amici, quelli del movimento cambiano vita. C’è chi va via dalla Piccola città.

Grosseto nel frattempo è diventata fra le prime città in Italia per consumo di eroina, in proporzione al numero degli abitanti: i quotidiani continuano a interrogarsi sui motivi. I benpensanti a ben pensare. Ed è in questo momento che anche babbo inizia. Nel 1982.

Draghi e sangiorgi, forze dell’ordine, lotte alla criminalità. Persino un maxiprocesso. Gli anni ottanta arrivano a Grosseto come una bomba che deflagra e lascia macerie ovunque, e le macerie sono l’AIDS, le overdosi, la città nemica.

Poi inizia la repressione. La polizia aspetta di intervenire al momento giusto. Chi si fa eroina sta con chi spaccia e uno spacciatore sta sempre intorno a mio padre, si chiama R., ha contatti con i mafiosi confinati in Maremma. Ha una pistola.

È il 1987. Mio padre e R. vanno a Firenze. Al loro ritorno li aspetta la polizia: cercano un’arma e la trovano. Finiscono in carcere per direttissima.

Io ho quindici anni, frequento la quinta ginnasio, il Liceo Classico “Carducci-Ricasoli”. La maggior parte dei miei compagni di scuola sono i figli della peggiore borghesia di Grosseto. Quelli che hanno scritto gli articoli, partecipato alle riunioni benefiche, pensato che fra massoneria e droga no, non c’è nessun legame e che i drogati, loro sì, sono il problema. Ma ci sono anche i migliori insegnanti di Grosseto al Liceo Classico “Carducci-Ricasoli”, che mi proteggono, che mi salvano la vita, che mi prendono per mano e mi danno gli strumenti per pensarmi fuori dalla piccola città.

Ci sono due immagini chiare che mi tornano in mente. La prima. Mio padre cammina in via dell’Unione, abbracciato alla sua compagna. Non riesce a tenersi in piedi. Io lo incontro con degli amici, penso che sia ubriaco, non capisco. La seconda. Mio zio che mi dice che mio padre è in carcere perché tossicodipendente. E mi porta a trovarlo.

Il carcere a Orbetello, piccolo, quasi un appartamento. Un compagno di cella rinchiuso lì perché ha ammazzato un fagiano di frodo. Ricostruisco immagini, frasi del passato. Mi rendo conto all’improvviso di tutto. Di tutto?

Vedo la piccola città e i suoi abitanti.

Fine

E mi sorprendo ancora a misurarmi su di loro
La bomba in testa, Fabrizio De André, 1973

Nonna non ci crede. Proprio non ci crede. Neanche di fronte alle sbarre della prigione. Mai. Ama quel figlio più di sé stessa, perché è nato quando era povera e la guerra era appena finita e a Grosseto c’erano i badilanti, ancora, e la malaria, e Marino suo marito raccoglieva la torba per far campare lei e quel piccolo figlio e una famiglia di parenti gretti che lei detesta. Isolina è il Mondo e dentro di lei mi rifugio, la Terra come ultimo orizzonte, viale Giotto come colonne d’Ercole che dividono la Città amica e quella nemica.

La città amica è mia madre, mia nonna, le femministe, Filomena e la scuola materna frequentata all’Alberese, la maestra Tonini e il tempo pieno di viale Giotto. La Terra, le rose, e laggiù oltre l’aeroporto, la strada, la pianura bonificata, il mare.

Ma la città amica è anche mio padre, i suoi amici, Lattaia, la Politica, via dell’Unione e le strade del centro. La città nemica sono le associazioni di beneficienza, i professionisti, le belle famiglie, i giornali locali che raccontano una storia buona solo per farli sentire meglio. La città nemica è la gente perbene.

Guardate questa bambina. Questa bambina sono io. Ho un buffo cappello di lana colorato, lo so perché c’è un’altra foto a colori che me lo dice. Sto con M. Deve essere il 1977. Sono felice. La città per me è ancora una soltanto. Nessun muro la divide in due. Per ora. Dopo non sarà mai più così.

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Quando ripeto le strade
Che mi videro confidente,
strade e mura della città nemica;
E il sole si distrugge
Lungo le torri della città nemica
Verso la notte d’ansia;
Quando nei volti vili della città nemica
Leggo la morte seconda,
E tutto, anche ricordare, è invano;
E «Tu chi sei?», mi dicono, «Tutto è inutile sempre»,
Tutte le pietre della città nemica,
Le pietre e il popolo della città nemica,
Fossi allora così dentro l’arca di sasso
D’una tua chiesa, in silenzio,
E non soffrire questa luce dura
Dove cammino con un pugnale nel cuore.

Franco Fortini, La città nemica, 1939.

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[queste note sono un sasso nello stagno, sperando che smuovano onde concentriche riportando indietro a me, come foglie, altre storie e memorie: vanessa.roghi@gmail.com. Grazie a Filippo, Alice e Anita che mi hanno insegnato a tornare a Grosseto senza odiarla più]

Tratto dal libro Una città aperta al vento e ai forestieri, a cura del Collettivo Bianciardi 2022, Lecce, Pensa Multimedia, 2016, pp. 65-78.

*Originariamente uscito su Bianciardi 2o22