
Di seguito una lunga intervista al Comitato Ventotene, che dopo la manifestazione di Roma del 25 marzo ha creato non poche discussioni sui social. Successivamente ci riserviamo, in un separato articolo, di confutare alcune affermazioni riportare nelle risposte. Essendo il testo molto lungo, non è il caso di appesantirne ulteriormente la lettura.
“Sapevamo che in una manifestazione di pettinati (Gioventù Federalista Europea, se ci stai leggendo, non prenderlo come un insulto, vi vogliamo bene) facendo casino potevamo avere un gran risalto, ma non così tanto. Gli haters rossobruni e i commies da questo punto di vista ci hanno aiutato molto e vogliamo vivamente ringraziarli di questo con un forte abbraccio”.
“Il nostro messaggio non è (solo) goliardico: ognuno degli slogan ha un chiaro indirizzo politico espresso in forma provocatoria. Europa Hashish Laissez-faire esprime la volontà di avere un’Europa unita, in cui libertà individuali e libertà economiche vadano di pari passo: un’Europa garante – come non può più essere lo Stato nazionale – dello sviluppo, della libertà e dei doveri dell’individuo. Ciò che riscontriamo è la totale assenza di una comunicazione positiva e per i giovani sulle tematiche della libertà e del federalismo europeo: i #VecchiDiMerda (altro slogan con le stesse caratteristiche dei precedenti e che i più si ostinano a non capire), dopo aver distrutto il panorama economico futuro, continuano a reiterare una forma di comunicazione verso i giovani che è stantia dagli anni ‘80, simile ai pensierini della scuola elementare (“L’Europa è bella, l’Europa è buona”).
La mancanza di una comunicazione (con)vincente, specie se condotta da chi è ormai legato a doppio filo al “passato”, ha portato buona parte dell’opinione pubblica a pensare all’Europa delle banche o a temere il pericoloso neoliberismo e uno dei nostri obiettivi è rimediare a tutto ciò. Il Comitato Ventotene si batte per rompere questa egemonia, culturale prima ancora che politica. La strategia che abbiamo scelto coniuga efficacia e sintesi: usiamo i meme perché, a nostro avviso e come dimostrano i fatti di questi giorni, sono l’unica forma di comunicazione in grado di diffondersi rapidamente e fare presa sui giovani (e più ancora di scatenare butthurt vari fra chi ci osteggia)”.
“Ma che denaro creato dal nulla d’Egitto! Stampare nuova moneta ha un costo che si chiama “inflazione”, l’hanno imparato duramente sulla propria pelle paesi come Argentina e Zimbabwe: i primi si sono dovuti inventare il patacòn, i secondi sono passati alla storia come un caso di polverizzazione della moneta. Il primo, per intenderci, è stata la Germania del primo dopoguerra: ve le ricordate le foto dei tedeschi che buttavano pacchi di marchi nel fuoco per scaldarsi? In più, la Banca centrale Europea non ha per niente diritto di decidere come e dove destinare i fondi, a farlo sono i singoli Stati. Non confondiamo questo con l’obbligo, da noi liberamente e democraticamente sottoscritto, di sottostare a dei vincoli di bilancio per ridurre il nostro mostruoso debito. Vincoli che abbiamo sottoscritto perché, giustamente, abbiamo valutato che la nostra adesione all’euro avrebbe fruttato sul lungo periodo in termini di riduzione del tasso di interesse sul debito e in termini di stabilità della valuta, dunque del nostro sistema economico. Possiamo essere d’accordo sul definire cura da cavallo quella imposta alla Grecia, ma i problemi dell’Italia (e della Grecia) non sono nati con l’euro: corruzione, malagestione di fondi, scarsa produttività, welfare pessimamente redistribuito tra fasce d’età e zone geografiche, per non parlare delle vere e proprie truffe che avvengono ai danni dello Stato, dai falsi invalidi alle fatturazioni gonfiate… sono tutti problemi che esistevano già da prima e che ignoravamo bellamente. L’euro ha soltanto messo ancor più in evidenza questa situazione”.
“Principalmente conferenze. L’anno scorso abbiamo organizzato sei conferenze su temi come i fondi europei all’agricoltura, il Ttip, la rappresentanza dei Millennials nelle istituzioni, la gestione dei rifiuti nella “terra dei fuochi”, il ruolo e le funzioni della Guardia costiera europea, eccetera. Non abbiamo preclusioni sulle opinioni: abbiamo invitato tante tipologie differenti di persone dagli ufficiali della Marina agli europarlamentari, dagli iscritti ai Giovani Democratici a quelli di Fare! Con Tosi. Nel futuro ci piacerebbe ospitare anche gli europarlamentari del Movimento Cinque Stelle, che all’Europarlamento fanno l’esatto opposto di quello che fanno in Italia, o di Forza Italia, come Lara Comi”.
Quanto al Fiscal compact, siamo più che altro favorevoli a una rimodulazione della spesa pubblica, che contenga un impegno serio per la riduzione del debito, il macigno che la nostra generazione si porta legato alle caviglie, tanto grande quanto sono gli interessi che ancora dobbiamo pagarci sopra. Siamo ormai coscienti che toccherà a noi fare i sacrifici necessari per lasciare un mondo migliore a chi verrà dopo di noi. D’altronde, sappiamo molto bene che la logica del tutto e subito, che noi rifiutiamo, è stata proprio quella che ha portato le passate generazioni a far pagare a noi tutto e subito il costo delle loro scelte.
Comunque ci piace molto il paternalismo malamente dissimulato di queste domande. Stupisce tanto che l’idea di un’Europa federale e democratica possa piacere anche ai non laureati o ai disoccupati? Stupisce tanto che la responsabilità fiscale sia un tema che possa essere condiviso anche da chi è in cerca di lavoro? La via dell’emigrazione l’hanno sperimentata anche alcuni di noi che partecipano dal resto d’Europa, e sono quelli che forse invocano di più la responsabilità fiscale e le riforme in Italia. All’austerity party non c’eravamo, ma ci è piaciuta l’idea, magari collaboreremo per farne altri. Lo faremo anche per vedere saltare dalla sedia qualche altro indignato paternalista, che parla ai giovani d’oggi “che non hanno più valori”. Che poi, quali valori? Quelli di chi predica la tutela della famiglia e poi divorzia? Di chi tuona contro le droghe e si fa poi beccare ai festini coca e mignotte? Di chi urla contro l’Europa cattiva con le tasche piene di rimborsi dell’Europarlamento? Meglio la goliardia di un austerity party, a questo punto”.
Questo significa anche armonizzare le troppe differenze che esistono tra i 27 sistemi esistenti, mantenendo comunque la flessibilità tipica della federazione di Stati, e garantire un bilancio europeo sufficiente a gestire questi processi. Sufficiente qui non significa appena sufficiente o striminzito; quale dimensione assumerà il bilancio federale sarà anche determinato dall’aggregazione delle preferenze in una democrazia compiuta. L’Europa è fatta di molte idee e di molte voci. Siamo convinti che, in ogni caso, un vero governo federale, supportato da una Costituzione che accentri determinati poteri, sarebbe molto più efficace e capace di placare il conflitto sui saldi di bilancio rispetto all’attuale Commissione a 27.
Per quanto riguarda il surplus commerciale della Germania, non riteniamo che la solidarietà si eserciti tramite la bilancia commerciale, il quale saldo non può e non deve essere stabilito arbitrariamente dai governi. Poi, per ora la regola c’è, ma se farla applicare vuol dire far spendere a uno Stato più di quanto consentito dal patto fiscale, allora meglio lasciar perdere. Tra gli obiettivi confliggenti, scegliamo quello che deve effettivamente essere sotto il controllo dello Stato. Se anche la bilancia commerciale fosse tra i problemi principali (e non lo è), l’Italia non avrebbe molto da lamentarsi col suo surplus commerciale crescente”.
Venendo al tema caldo, la spesa pensionistica, considerando solo le pensioni di anzianità e di reversibilità, è attorno 230 miliardi: quasi un terzo della spesa primaria italiana, una cifra nettamente superiore alla media Ocse. Nessuna manovra finanziaria può cambiare realmente questo Paese senza affrontare una rimodulazione (di cui abbiamo tremendamente bisogno) di questo aggregato di spesa. La legge Fornero, per ridurre gli incrementi previsti e non far lievitare quindi ulteriormente la spesa pubblica, è intervenuta innalzando improvvisamente l’età pensionabile perché era l’unica soluzione di breve periodo da mettere in atto. Poi però va anche detto che di innalzare l’età pensionabile a 65 anni se ne parlava già nel 1992, che l’Unione Europea ci aveva già avvisato da almeno dieci anni di uniformare il limite di uscita per uomini e donne, prima di imporcelo definitivamente nel 2011, e che la riforma Sacconi aveva già legato l’età pensionabile all’aspettativa di vita nel 2010-2011. L’ex ministro Fornero non ha fatto altro che anticipare il termine già previsto del 2013, purtroppo generando il fenomeno degli esodati (categoria che poi stampa e sindacati hanno avuto buon gioco ad allargare, a uso e consumo proprio, a chiunque superasse una certa età e fosse disoccupato).
Una misura di medio periodo invece può essere quella di intervenire sul costo delle pensioni che vengono già erogate. Anche qui, intervenire sulle sole “pensioni d’oro” è inutile, perché i risparmi sarebbero irrisori (spendiamo 112 miliardi lordi per le pensioni fino a 1.500 € e altri 98 miliardi per quelle fino a 2.500 €, ovvero per le prime due classi scaglionate dall’Inps). Dove si può invece intervenire è sull’85% di pensioni che viene erogato col sistema retributivo, e più precisamente sul differenziale tra il calcolo retributivo o misto e quello contributivo. Tito Boeri, nel 2015, ha stimato questo differenziale in una somma pari a 46 miliardi e ha perfino timidamente proposto una tassazione pari al 30% su questa differenza. Parlando in numeri, ponendo che un pensionato prenda 1000 € al mese in regime retributivo o misto e che il suo differenziale sia di 100 €, gli verrebbe decurtata la pensione di soli 30€ al mese. Non è il massimo della vita vedersi tolti dei soldi, è vero, ma l’alternativa è continuare a perpetrare un sistema dove gli anziani prendono più di quanto dovrebbero e un giovane meno di quanto potrebbe. Crediamo, sempre tenendo l’equità intergenerazionale come obiettivo, che questo debba essere solo il primo passo di un’armonizzazione totale, scandita nel tempo, del sistema verso il metodo contributivo.
Come usare questi soldi è tutto un altro capitolo. Per quanto ci riguarda dovrebbero essere investiti in un migliore sistema di istruzione e formazione (anche perché spendiamo davvero poco e davvero male), per finanziare gli ammortizzatori sociali necessari ad alleviare questo passaggio di sistema, ma soprattutto per ridurre le imposte sul lavoro, ridistribuendo di fatto le risorse in favore di chi è in età lavorativa. Ecco, discutiamo di cosa fare con 46 miliardi, non se sia giusto o meno riprenderceli, perché lo è”.
Poi, l’argomentazione, oggi molto di moda, sull’avanzo primario come indice di rigore fiscale, sembra fondarsi sull’assunto non si deve tenere conto degli interessi sul debito quando si decide la politica di bilancio. Gli interessi si pagano e si devono comunque pagare: rimanere in deficit perché scegliamo di non pagarli non è affatto una buona disciplina di bilancio. Anzi, se si fosse ottenuto il pareggio totale (e non solo primario) molti anni fa, proseguendo e non interrompendo l’operazione di taglio del debito iniziata negli anni ’90, l’ammontare attuale degli interessi sarebbe stato minore e avremmo più risorse da investire, per la crescita o per la perequazione.
Se, in aggiunta ai nostri noti problemi di produttività, competitività, leggi e leggine anti-mercato e giustizia che non funziona, ci mettessimo pure a svalutare in continuazione, dall’estero non investirebbero nemmeno pregando in ginocchio. A quel punto, la maggior parte degli investimenti e del rischio se la dovrebbero accollare i risparmiatori italiani. Questa è la sovranità che vogliamo? Siamo sicuri di aver capito che “sovranità” fa rima anche con “totale responsabilità”?”
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