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SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Si chiama Event Horizon Telescope, ed è un progetto astronomico senza precedenti. Nei prossimi mesi, otto dei più grandi telescopi del mondo lavoreranno in stretta simbiosi, per uno studio approfondito sui buchi neri.

Durante l’operazione, tutti i telescopi saranno puntati nello stesso punto dello spazio, ovvero al centro della Via Lattea, dove si ipotizza la presenza di un buco nero supermassiccio, e trasmetteranno dati e immagini simultaneamente ai vari osservatori.

Gli astronomi, finora, hanno sempre ipotizzato il funzionamento dei buchi neri in base a deboli radiazioni, elementi indiretti, supportati dalla teoria della relatività di Einstein che giustifica le attuali conoscenze.

Dall’Event Horizon Telescope, ora, ci si aspetta di più: unendo le potenti antenne dei principali osservatori, si vuole creare un complesso che lavorerà come telescopio unico, molto più efficace di tutte le singole unità. Un macchinario del genere fornirà dati paragonabili ad un’osservazione diretta, che potranno poi essere impressi in vere e proprie fotografie ad alta definizione.

Ormai i preparativi sono quasi ultimati: nelle notti tra il 5 ed il 14 aprile, il supertelescopio inquadrerà il buco nero Sagittarius A*. Le immagini, però, necessiteranno di tempo per essere elaborate; il risultato finale è atteso nel 2018. Se tutto procederà al meglio, il prossimo anno potrebbe portare grandi scoperte nel campo della fisica e dell’astronomia, confermando teorie finora solo ipotizzate, e magari sollevando nuove domande.

Perché osservare un buco nero? Questi giganti cosmici, attualmente, sono elementi estremamente misteriosi, governati da leggi fisiche non ancora chiare, e totalmente invisibili ad occhio nudo. Tutte caratteristiche che incuriosiscono oltremodo i ricercatori.

Un buco nero, per definizione, è una regione dove la gravità è talmente forte da alterare sia lo spazio che il tempo, attirando a sé qualunque particella nelle vicinanze. La forza attrattiva è così elevata che niente è in grado di sfuggire al suo campo gravitazionale, nemmeno la luce. Senza la luce, è impossibile vedere come è fatto un buco nero: per osservare qualsiasi oggetto, infatti, è necessario che questo assorba la luce e la rilasci subito dopo. Il segnale liberato colpisce poi l’occhio, che interpreta le varie lunghezze d’onda in forme e colori.

I buchi neri, invece, catturano ma non rilasciano nulla. Per questo motivo, non sono mai stati studiati direttamente; l’osservazione si basa piuttosto sul vortice di materia che circonda questo corpo celeste. Attirata verso il centro, la materia viaggia a velocità sempre più elevate, emettendo energia per attrito e riscaldamento; il picco massimo si ha quando le particelle raggiungono il cosiddetto “orizzonte degli eventi”, ovvero la linea di non ritorno, l’ultimo punto in cui la luce può ancora allontanarsi senza essere catturata. Nessuno sa cosa accade oltre l’orizzonte degli eventi. Le teorie attuali ipotizzano che la materia sia schiacciata all’infinito, ma con ulteriori dati si potrebbe arrivare a nuove conclusioni.

L’osservazione dell’Event Horizon Telescope avrà proprio questo scopo. Fotografando al dettaglio il movimento della materia presso l’orizzonte, i ricercatori si pongono tre obiettivi: il primo è verificare la teoria della relatività di Einstein. La famosa formula E=mc² stabilisce che la massa e l’energia sono equivalenti: in pratica la materia, se lanciata ad una velocità prossima a quella della luce, perde il suo stato fisico e si tramuta in energia. In effetti, un buco nero attira la materia verso di sé proprio a questa velocità, dal momento che la luce stessa non sfugge alla sua gravità. Quindi, ci si aspetta che in un buco nero la materia diventi energia, o qualcosa di completamente sconosciuto alla scienza. In entrambi i casi, si tratterebbe di una scoperta rivoluzionaria.

In secondo luogo, si vuole studiare il meccanismo di accrescimento dei giganti supermassicci; fagocitando continuamente materia, naturalmente, il buco nero diventa sempre più grande, ma le modalità precise con cui ciò avviene sono ancora oggetto di studio. Scoperte recenti, comunque, hanno dimostrato che i buchi effettuano anche un processo inverso, ovvero si rimpiccioliscono perdendo energia, per compensare lo squilibrio di forze che provocano nello spazio circostante. Prima o poi, forse, questi insaziabili saranno quindi destinati a dissolversi nel nulla.

Infine, i nuovi dati potrebbero fare più chiarezza anche sui “getti di materia” sparati dal centro della Via Lattea. Le galassie che ruotano intorno ad un buco nero, in questo caso Sagittarius A*, viaggiano ad elevate velocità, e rilasciano grandi colonne di detriti nei punti di fuga vicini al centro di rotazione. Il principio è simile a quello di una trottola: facendola girare, l’energia rotazionale si scarica sulle punte, che sono lunghe e sottili per convogliarla meglio e non interferire con la rotazione.

Gli obiettivi, quindi, sono vari ed ambiziosi, ma ottenere i dati desiderati sarà tutt’altro che facile. Il rischio di errore è molto alto, in quanto anche la minima interferenza può invalidare l’intero esperimento. I ricercatori, però, hanno deciso di tentare la sorte, e incrociano le dita fin da adesso.

Per garantire il miglior risultato, sono stati coinvolti alcuni tra i più sofisticati radiotelescopi esistenti, come l’ALMA, situato nel deserto dell’Atacama, ed il South Pole Telescope.

Come funziona un radiotelescopio? I radiotelescopi sono invenzioni relativamente recenti, che forniscono dati diversi rispetto ai normali telescopi ottici. Chiunque ne abbia mai usato uno, saprà che il telescopio ottico è composto da una serie di lenti che catturano e riflettono la luce, restituendo un’immagine ingrandita dell’oggetto osservato.

Questi però consentono di osservare solo la finestra del visibile, ovvero la luce che viaggia ad una lunghezza d’onda compresa tra 770 e 430 nanometri; una caratteristica che va bene per le stelle ed i pianeti vicini, ma non serve per i corpi celesti invisibili o troppo lontani, come appunto i buchi neri.

I radiotelescopi compensano in parte questo deficit. Strutturati come antenne paraboliche, simili a quelle per la tv satellitare, captano le onde radio, ed eventualmente le lunghezze d’onda nell’infrarosso e ultravioletto.

Ogni tipo di radiazione fornisce un tassello per ricostruire l’immagine completa. Per avere un’idea dell’importanza di queste analisi, si pensi alla storia dei sei ciechi che tastano un elefante: chi afferra una zanna penserà che gli elefanti sono appuntiti come lance, chi sente l’orecchio li crederà simili a ventagli, chi tocca la zampa li paragonerà ad un tronco d’albero. Allo stesso modo, ogni telescopio del mondo “sente” solo una piccola parte dei buchi neri; soltanto unendo tutte le loro percezioni si potrà avere, se non l’immagine vera, almeno un punto di vista più obiettivo su come sono fatti.