MARTINSICURO – La Rolling Pattinatori “D. Bosica” di Martinsicuro non poteva scegliere atleta migliore per rappresentare gli alti valori morali dello sport in occasione della sua festa sociale. Francesco Bettella nasce a Padova il 23 marzo del 1989 e inizia a nuotare da piccolissimo, poco dopo la scoperta della malattia che ora lo costringe sulla sedia a rotelle.

La vera e propria carriera prende il via intorno ai quattordici anni con la attuale società, la Aspea Padova, che si occupa esclusivamente di nuoto agonistico per disabili. Da lì Francesco Bettella colleziona medaglie europee, mondiali e paralimpiche: “A Londra 2012 sono arrivato quinto e settimo, mentre a Rio 2016 ho conquistato l’argento sia nei 50 metri che nei 100 metri dorso. La particolarità delle medaglie delle ultime Paralimpiadi è che, se agitate, producono un suono diverso a seconda che si tratti di oro, argento o bronzo”.

Il tema della serata organizzata dalla associazione di pattinaggio corsa era “Don’t tell me you can’t” (“Non dirmi che non puoi”), un motto che Francesco Bettella, fresco di laurea in Ingegneria meccanica, conosce bene: “Nessun obiettivo è troppo grande per essere raggiunto. Nessun limite può fermarvi se ci credete veramente e vi impegnate al massimo”. Questo il messaggio lanciato ai giovani dall’atleta, esempio per tutti sia dal punto di vista sportivo che da quello umano.

Francesco, quando ti sei avvicinato al nuoto?

“Ho iniziato a tre anni, sono stati i miei genitori a portarmi in piscina. Ho una malattia genetica, una neuropatia progressiva che ha cominciato a manifestarsi quando avevo due anni, e il nuoto era lo sport più completo dal punto di vista fisico. Per dieci anni ho frequentato i corsi di scuola nuoto della FIN, ma a tredici anni circa ho smesso, perché ero stanco di stare in corsia con i bambini più piccoli di me e andare a velocità ridotte. Ho ripreso in primo superiore, quando sono venuto a conoscenza della Aspea Padova. Così ho avuto l’opportunità di dare sfogo alla mia parte competitiva e gareggiare”.

Com’è iniziata la tua carriera agonistica?

“Sono partito dai Campionati regionali e nazionali. La mia prima gara all’estero è stata nel 2006 in Danimarca, l’esordio nella Nazionale italiana invece nel 2009, quando ho preso parte ai Campionati europei in Islanda. Da lì è iniziato tutto”.

Quando c’è stata la svolta?

“Il salto di qualità c’è stato nel 2010, quando all’università ho frequentato un corso di meccanica dei fluidi da cui ho preso spunto per modificare la mia nuotata: ho provato a incrociare le gambe in allenamento e ho scoperto che questa tecnica migliorava di molto i miei tempi. Così ho vinto il bronzo sia ai Mondiali di quell’anno che agli Europei del 2011”.

Raccontaci le tue due esperienze paralimpiche.

“Londra 2012 è stata la prima, quindi c’era l’emozione dell’esordio. Mi avevano sempre detto che i Giochi sono diversi da qualsiasi altra gara e lì ho capito che effettivamente è così. Bisogna rimanere concentrati, perché ogni minima dispersione di energia può inficiare la prestazione. Una bella esperienza, ma a Rio 2016 c’era un’atmosfera completamente diversa. Il pubblico era più partecipe, era tutto molto più colorato e io me la sono goduta al massimo, anche perché sono da sempre amante del Brasile”.

Quali sono i programmi per il tuo futuro?

“L’obiettivo più imminente è il Mondiale in Messico, che si svolgerà a ottobre, poi vedrò. E’ troppo presto per pensare ai Giochi di Tokyo 2020, vado avanti anno per anno. Anche perché a luglio scorso mi sono laureato in Ingegneria meccanica, quindi dovrò riuscire a conciliare impegni lavorativi e sportivi. Ora sono in università con la borsa di studio, ma se inizierò a lavorare presso un’azienda sarà più difficile allenarsi con costanza”.

Come si potrebbe valorizzare maggiormente il movimento paralimpico?

“Le dirette della Rai hanno offerto un grandissimo servizio in occasione di Rio 2016. L’auspicio è che non si spengano i riflettori sullo sport paralimpico, il quale, al pari di tutte le discipline minori, viene alla ribalta solo con i grandi eventi. C’è molta gente che ancora non conosce il nostro mondo. Noi atleti possiamo solo cercare di raggiungere risultati importanti e far parlare di noi, sperando che ci venga dedicata un po’ di attenzione mediatica”.