Sono sempre stata una buona lettrice, e mi sono occupata di letteratura comparata subito dopo il dottorato di ricerca, nei miei primi anni di insediamento universitario. Relativamente al rapporto tra lettore e autore ho sempre avuto una mia teoria, che quegli anni di studio non hanno mai smentito. Contrariamente a quanto le teorie del testo mi volessero insegnare (Umberto Eco in testa, che se in quegli anni non adoravi eri out), ho sempre pensato che il sapere fosse una questione molto delicata da affrontare e avesse molto a che fare con la nostra sicurezza e la nostra personalità, più che con le analisi strategiche.

Nessun prodotto di comunicazione, sia esso un libro, una canzone, o un film, vive senza la nostra collaborazione. Siamo noi che gli attribuiamo un significato, noi che gli permettiamo di emozionarci o di lasciarci indifferenti, perché siamo sempre noi che da quel prodotto comunicativo siamo o possiamo essere influenzati. Così, se ci troviamo di fronte a qualcosa che dobbiamo studiare o conoscere per forza, per motivi di ordine comunitario, allora più approfondiamo il messaggio e meglio è, perché meglio sappiamo le cose, e più potremo essere influenti con gli altri, ma se siamo di fronte a qualcosa che per definizione deve arricchire la nostra anima, noi stessi prima che il nostro bagaglio culturale, come quando siamo di fronte alla letteratura, questo davvero non sempre è utile. Anzi.

Secondo me, talvolta disturba solamente. Joyce durante la stesura del Finnegan’s Wake, ormai quasi completamente cieco, nel dettare le parti del testo, talvolta si affidava alla libera creatività dei suoi scrivani per il completamento (uno dei quali era Samuel Beckett, tanto per dire), i quali spesso tiravano a caso parole nel testo perché non avevano idea di come interpretare il pensiero del Maestro. Parole a caso che lui manteneva e che ora leggiamo nel suo scritto. Saperlo cancella forse lo statuto di classico al testo citato? Direi di no. Di quanti autori adoriamo le parole ma detestiamo la vita, o viceversa, amiamo la vita ma detestiamo gli scritti? Le cose si influenzano, ma non sempre necessariamente. Perché sebbene quando parliamo in pubblico, per mantenere una certa apparenza, tutti dobbiamo detestare chi predica bene ma razzola male, nella vita, invece, male abbiamo razzolato spesso tutti. E ad essere onesti con la nostra anima è questo che dovremmo ripeterci.

E allora, perché non lasciare alle parole il compito di emozionarci e al proprio autore il diritto di nascondersi? Io lo trovo perfettamente coerente. Come trovo coerente un’unica eccezione a questo postulato. Quando, cioè, le parole che riceviamo ci toccano intimamente così tanto da riconoscere una vicinanza nel vissuto dell’autore che merita il tentativo del confronto. Un bisogno intimo che stimola un confronto altrettanto intimo. Lo dico perché ci credo e questa eccezione l’ho vissuto sulla mia pelle.

La lettura di alcuni scritti di un famoso autore austriaco, tanti anni fa, mi aveva turbato interiormente così tanto, che avevo bisogno di capirne il motivo. Così, l’ho cercato in lungo ed in largo e dopo mesi di tentativi e ricerche, finalmente ha accettato di vedermi e mi ha accolto a casa sua. Non abbiamo parlato dei suoi libri, ovviamente, ma lui mi ha raccontato la sua infanzia, ed io ho capito improvvisamente ogni cosa. Come procede la sua vita continua a non interessarmi. Grazie ai suoi testi e ai suoi discorsi, avevo scoperto molto di più: cosa basta a far toccare due anime. Ora, ditemi quello che volete, ma in questa persecuzione alla povera “Elena Ferrante”, di fini investigatori dell’anima ne vedo ben pochi. Quindi la lasciamo in pace?