Dell’incontro che si è svolto la scorsa settimana alla Galleria Calabresi di San Benedetto tra il professor Giulio Salerno, docente all’Università di Macerata e favorevole al Sì per la modifica della Costituzione, e il professor Pancho Pardi, favorevole al No, docente all’Università di Firenze, sono emersi molti spunti interessanti. Si è trattato di un confronto vivace e schietto, con molti interventi dal pubblico altrettanto carichi di interesse, qualche volta anche di quella quantità di pathos civico che fa sempre bene ascoltare. Ma c’è un aspetto, a mio avviso, che è stato affrontato non pienamente a fuoco da entrambi i relatori, ed è quello relativo alla gestione dei rapporti tra la Camera dei Deputati e il nuovo Senato prospettato dalla modifica voluta da Renzi e Boschi.

(per trasparenza, devo avvertire i lettori che lo scrivente si è da tempo schierato per il No al voto del 4 dicembre, ed è attivista in tal senso)

Infatti se la retorica parla di “fine del Bicamelismo” (perfetto), di fatto si arriva ad un Bicameralismo imperfetto e la modifica pensata creerà in realtà una complicazione legislativa che non avrà paragoni con la situazione attuale, che anzi è lineare: i procedimenti si approvano sempre velocemente e in gran quantità quando le maggioranze lo vogliono; se ci sono rallentamenti ciò è dovuto a posizioni diverse all’interno della maggioranza stessa.

Da questa considerazione deriva che il tanto temuto “ping pong“, slogan dei sostenitori del Sì, rischia di diventare un “flipper“. Ovvero un rimbalzo del procedimento legislativo con conseguenze ogni volta imprevedibili, compreso, in caso di scossoni imprevisti, il “tilt“.

Inizialmente, la mia analisi sulla modifica costituzionale era incentrata principalmente proprio sul merito della propaganda renziana: “Decidiamo in fretta, semplifichiamo“. Il combinato disposto di modifica costituzionale e legge iper-maggioritaria Italicum effettivamente crea alla Camera un mostro politico nel quale un solo partito politico decide tutto, e il capo del partito decide tutto nel suo gruppo. Ecco che una struttura del genere fa effettivamente l’interesse “dei padroni”, intesi in senso generale come “chi vince”, in senso tattico come “chi vince adesso”, ovvero il potere finanziario. Questo spiega anche i ripetuti appoggi internazionali, Germania in testa. L’obiettivo sarebbe di rendere il Parlamento italiano una sorta di appendice della governance multilivello che governa l’Europa: un sistema a-democratico, dove le istituzioni governano senza sovranità.

Questo intento primario, che trova ad esempio applicazione proprio su quelle tematiche locali-ambientali che lo Stato di fatto avoca a sé (clausola di supremazia: per cui se si decide di piantare una trivella davanti alla vostra spiaggia, non c’è protesta che tenga: il Parlamento approva quel che desidera il Governo, il Senato viene estromesso, il governo fa quel che chiede il suo Presidente, che se fosse un poco di buono avrebbe tutta la libertà di agire senza contrappesi politici…), è però per molti aspetti fortemente compromesso dalla palude di competenze che vengono ri-stabilite tra Camera e nuovo Senato. Il flipper.

Vediamo perché.

PREMESSA Prendiamo ad esempio cosa sarebbe accaduto nel caso delle elezioni del 2013. Che è forse un caso limite, ma non impossibile da ripetere o da avvicinare. Il M5S sarebbe diventato il primo partito alla Camera e raccolto 345 seggi con quasi il 25,56% dei voti. Un premio di maggioranza di quasi il 30%. Il 74% degli altri voti si sarebbero divisi il restante 45% dei seggi: quindi una maggioranza fortissima, una minoranza sparpagliata (molte liste, proporzionale, bassa quota minima di ingresso). Nel nuovo Senato, che ricordiamo sarà composto da 5 senatori di nomina presidenziale, 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, forse ci sarebbe stati uno o due rappresentanti del M5S. Ma fosse anche oggi, il M5S non credo riuscirebbe ad avere più di 10 senatori.

Avremmo dunque questo grande problema: alla Camera un partito di minoranza nel paese avrebbe la maggioranza assoluta, mentre al Senato sarebbe quasi sempre minoranza (allo stato attuale questa eventualità potrebbe attenuarsi solo in caso di Camera guidata dal Pd).

1 – LEGGI BICAMERALI: ESATTAMENTE COME ORA MA AL SENATO NON C’E’ MAGGIORANZA Il famoso articolo 70 (leggi qui) specifica i nuovi procedimenti legislativi. In molti casi avremo lo stesso schema bicamerale di oggi: una legge sarà tale solo se approvata dalla maggioranza assoluta della Camera (Italicum) e del nuovo Senato. Non capisco in che modo senatori leghisti potrebbero approvare leggi del Pd che arrivano dalla Camera o viceversa; l’esempio vale per tutti i partiti. Qui il flipper rischia di andare spesso un tilt.

2 – LEGGI UN PO’ BICAMERALI Sempre l’articolo 70 stabilisce che “le altre leggi sono approvate dalla Camera dei Deputati”. Tuttavia nessuna legge può ritenersi pienamente monocamerale. Il Senato esiste! Qui riassumiamo l’insieme di casistiche previste dettagliatamente: praticamente ogni disegno di legge approvato dalla Camera può essere riesaminato dal nuovo Senato, il quale “può deliberare proposte di modificazione del testo” tuttavia la Camera “può non conformarsi. Chi decide però se una legge sia del tipo che abbiamo chiamato Bicamerale o del tipo Un Po’ Bicamerale? I Presidenti delle due Camere, “d’intesa tra loro”. Presidenti eletti sulla base di maggioranze completamente diverse, ricordiamo. Inoltre “il Senato può svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati“.

COSA SUCCEDE? Succede che il ping pong, che avviene quando una maggioranza è divisa al suo interno (o quando una legge contenga degli strafalcioni da rimediare con più approfondimento) e non riesce ad imporre la stessa legge nelle due Camere, viene trasformato in flipper sempre. Perché sempre il Senato avrà una maggioranza diversa. Sempre un Senato Pd (poniamo), chiederà “modificazioni” e qualora come probabile la Camera “non si conformi” vi sarà una notevole produzione di “attività conoscitive, osservazioni, atti, documenti”. I Presidenti delle due Camere diventeranno quasi i tutori di maggioranza e opposizioni. Per le leggi Bicamerali, semplicemente non passeranno quasi mai. L’idea che alla Camera debba governare senza lacci un solo partito e non una coalizione rappresentante di ampi interessi sociali farà sì che il Senato possa essere utilizzato come un Vietnam dove frenare o rallentare la produzione legislativa della Camera o comunque creare tensione politica. E qualora ciò non avvenga, l’opposizione dei senatori si avvarrà delle inchieste e delle osservazioni che saranno di interesse pubblico.

Questi aspetti controversi sono all’origine dello scetticismo di parti del mainstream (si pensi a D’Alema o De Bortoli, ma anche il Financial Times in questi giorni) che ha compreso che con il Sì l’Italia non sarà affatto più governabile: anzi, si teme il salto nel buio e un aumento della conflittualità in forme istituzionali inedite e quindi poco invise a chi vorrebbe un paese all’apparenza pacificato.

SALERNO E PARDI. Il professor Salerno, alla mia domanda posta all’incontro di San Benedetto su questo aspetto, ha affermato che “è una contraddizione paventare la svolta autoritaria e poi temere l’ingovernabilità. Il Senato avrà modo di essere da contrappeso proprio in rappresentanza delle regioni“. Parole legittime da parte di chi sosteneva il Sì nel confronto ma che non centrano il tema principale: le leggi costituzionali, le leggi elettorali o le leggi che riguardano “le norme generali” di partecipazione all’Unione Europea, nate alla Camera moriranno al Senato, per ovvie deduzioni di speculazione politica. Per altri versi l’ha riconosciuto lui stesso, rispondendo sul tema della Conferenza Stato-Regioni: “Non funziona per niente bene quando il governo ha un colore diverso rispetto alla maggioranza delle regioni, per alcuni periodi non fu convocata per sei mesi. Funziona bene quando hanno lo stesso colore”. Non vorremmo esagerare, ma per farsi capire la modifica Renzi-Boschi “costituzionalizza” una sorta di conferenza Stato (Camera) – Regioni (Senato). Buona fortuna, e occhi aperti.

Da parte sua Pardi secondo me non ha colto il senso della mia domanda (e di altri, poi). Ha detto che questo rischio non lo vede perché “i senatori, che sono sindaci e consiglieri regionali, hanno necessità di mettersi in mostra e di non creare problemi, avranno una funzione ancillare“. Credo che il professore intendesse che i nuovi senatori, dovendo fare carriera politica, obbediranno facilmente al Capo del partito, piuttosto che esercitare in Senato una strenua difesa delle prerogative del territorio che, in second’ordine, li manderà a Roma. Questo è condivisibile ed è proprio questa una delle altre critiche poste alla modifica Renzi-Boschi: si va a creare un Senato dei partiti e non un Senato delle Regioni, che tra l’altro perdono poteri a favore dello Stato.

Ma Pardi dovrebbe capire che proprio per lo stesso motivo, ovvero la dedizione alla volontà del Capo per cercare di essere rieletti alla Camera, allora il sistema immaginato alla Camera, ovvero un solo partito contro tutti gli altri, agevola ulteriormente il conflitto tra Camera e Senato (due maggioranze diverse) a prescindere.