Non che l’uomo sia nuovo nelle giravolte, anche a 180°. Comunista, poi Grande Privatizzatore e sognatore dell’inesistente Terza Via, infine, all’approssimarsi della Terza Età (quella sì, ineludibile), persino critico dell’austerità europea che lui stesso ha contribuito a solidificare. Infine, col neoliberismo renziano a scoppio ritardato di tre decadi, si ri-manifesta quale algido rappresentante della fronda con radici comuniste all’interno del Partito Democratico.

C’est lui, Massimo D’Alema.

Il sintetico e simpatico ritratto delle prime righe serve per inquadrare l’ex Presidente del Consiglio nella dimensione politica attuale: dentro il Partito Democratico e alla guida del fronte interno che si è schierato per il No al referendum in opposizione al Presidente del Consiglio attuale nonché segretario del Pd Matteo Renzi.

La scelta di D’Alema, oltre che a connotazioni sincere e di merito che lui stesso ha avuto modo di esplicitare in più occasioni, nasconde anche una dimensione politica che non viene colta, nelle diverse sfaccettature da cui è composta, né dagli avversari, ovvero i renziani, né pienamente dai sostenitori, i dalemiani ancora molto numerosi in tutta la Penisola.

I renziani vedono nella decisione di D’Alema l’ennesimo arroccamento della “ditta”, criticano la “vecchia” politica rispetto alla “nuova” stagione di Renzi e Boschi. Si galvanizzano, pur se numericamente dilaniati, immaginando di sconfiggere in un colpo solo la “Casta” e pure quella componente democrat che, nelle non esaltanti stagioni della Seconda Repubblica, aveva però profonde radici in quel senso dello Stato che era (ora non più) prerogativa gelosamente manifestata rispetto al centrodestra berlusconiano, leghista e post-fascista.

I renziani non colgono invece nella mossa di D’Alema l’estremo tentativo di salvare il Pd dal rischio di autodistruzione che una sconfitta referendaria, con tutto il partito a testa bassa schierato per il Sì, avrebbe come conseguenza. I sondaggi, da maggio in poi, danno i votanti No in leggero vantaggio sul Sì; lo diciamo solo per ricordare che, tutto sommato, vi è una possibilità su due che Renzi e i suoi escano sconfitti.

La mossa di D’Alema è sicuramente un attacco a Renzi, ma è altrettanto certamente il tentativo di far restare il Pd o parte di esso centrale nella vita politica italiana. Anzi: un crollo renziano automaticamente innalzerebbe i dalemoni quali rappresentanti di una sinistra, per quanto di facciata la si voglia considerare, popolare, rispettata e autorevole.

Ed ecco qui l’altra sfaccettatura non compresa dai sostenitori di D’Alema: l’eventuale svolta dalemiana con la vittoria del No mira certamente ad estromettere Renzi  dal governo e dalla guida del partito a rischio di un disastro politico raro, ma non ci sono possibilità di un cambio politico reale restando l’agenda italiana nelle mani dei vertici europei (Commissione, Bce, e pure Merkel), primi firmatari ombra della riforma accentratrice di Renzi-Boschi. Anzi: D’Alema o chi per lui è ritenuto – e soprattutto ha dimostrato – di essere molto più affidabile di Renzi. D’Alema sa concertare sia con le parti sociali ed economiche, conducendole senza fratture dove desiderato, sia con le opposizioni parlamentari che interne. Renzi queste doti non le ha.

Insomma, D’Alema – o chi per lui – ci sa fare, a Renzi manca l’arte diplomatica. E certi pastrocchi figli della modifica della Costituzione a D’Alema non sono sfuggiti nella loro estrema pericolosità persino per il sistema che si andrebbe a sostenere. Caso emblematico l’immotivato potere dato al Senato dei nominati dai partiti in merito ai trattati internazionali. Facile prevedere come una tipica azione di maggioranza troverebbe automaticamente il diniego da parte di un Senato dalla maggioranza inesistente e comunque oppositiva rispetto al risultato della Camera. Una follia logica che sarebbe una manna per i cosiddetti “anti-sistema”, e un incubo per le maggioranze.