Matteo Renzi ha vinto la battaglia sul referendum cosiddetto “No Trivelle“. Il Partito Democratico, invece non ha vinto. Forse ha “non perso”, sicuramente non ha vinto. La strategia comunicativa (ma non solo) del variegato mondo “no Pd” (includendo anche il centrodestra, anche se su questa vicenda andava a rimorchio) va rivista urgentemente se vuole diventare incisiva e abbandonare per sempre i carnevali colorati. Cominciamo dalla fine.

DIRE SEMPRE LA VERITA’ La battaglia referendaria, oltre che sull’appoggio di alcune regioni, si è basata su tanti gruppi di attivisti locali, concentrati in questo caso nelle regioni adriatiche. Va detto che il governo aveva depotenziato lo spirito referendario “No Triv” accogliendo alcune richieste (le principali) e il quesito superstite aveva limitate valenze ambientali o addirittura di politica energetica, ma, al di là degli effetti politici non ascrivibili al testo per il quale si votava Sì o No, la questione era tutta relativa ai rapporti, più o meno trasparenti, tra il governo Renzi e le multinazionali dell’Energia.

Ad esempio in questo articolo da noi pubblicato il 6 marzo, i “No Triv” piceni parlano di tanti argomenti nessuno dei quali è il “cuore” del referendum. Questo articolo di Francesco Sylos Labini spiega meglio di altri la situazione. Cerco di semplificare. Il referendum non poneva fine alle “trivelle”. Se una compagnia energetica avesse chiesto di “trivellare”, lo Stato l’avrebbe concessa nel caso ci fossero stati i requisiti. Nessun posto di lavoro in meno. Nessuna estrazione di idrocarburi in meno.

Semplicemente, sarebbe accaduto quanto scritto in questa divertente immagine, o questa sintesi che ho scritto sulla mia pagina Facebook.

La decisione del governo, ovvero quella di favorire le grandi multinazionali petrolifere regalando loro denaro in maniera così spudorata, grida vendetta al cielo. Ma nulla di tutto questo è trapelato nella comunicazione di massima dei favorevoli al Sì. Si vedevano mari chiazzati di petrolio, anche ingenui sentimenti ambientalisti (quante foto sulla riva sui social per proteggere il mare: da cosa? dalle royalties abbonate?), che escono sconfitti in una “chiamata alle urne” di questo genere. “Si trivella in Croazia, perché qui no?”, “Usi l’automobile o no?”, “Perché dobbiamo importare il gas se ce lo abbiamo”, “Perdono il lavoro 11 mila persone”. Ad una campagna imprecisa, si sono avute risposte ridicole. Ma che fanno breccia. 

Parlavo con un attivista per il Sì appena decisa la data del referendum (tutto deciso per evitare lunghi tempi di informazione) e concordavamo come fosse impossibile pensare di farcela. Lo scandalo Tempa Rossa, l’incredibile decisione di governo e Pd di promuovere l’astensionismo, il rafforzamento di Napolitano (fino alla piccola esibizione di Mattarella che va a votare alle 21 per evitare di dare l’esempio in mattinata), tutto questo ha scatenato una piccola reazione emotiva che ha alzato un po’ il flusso dei votanti. Ricordiamo che circa il 40% degli aventi diritto al voto, oggi, dichiara di astenersi in caso di elezioni politiche, figurarsi un referendum…

Ma non è serio impostare una campagna politica su temi irrazionali. Ai cittadini bisogna dire esattamente le cose come stanno.

Resta ovviamente la considerazione che il governo, facendo retromarcia su 5 dei 6 quesiti referendari e lasciandone uno superstite, abbia giocato d’anticipo, attirato in una trappola e ottenuto quella che è una vittoria, ma di Pirro. Vediamo perché.

COS’E’ IL PD? Dopo la caduta del Muro di Berlino e la vittoria di Berlusconi del 1994, gli eredi di Dc e Pci, nelle loro varie evoluzioni, sono stati valutati, dai loro elettori, come i baluardi dei difensori delle Istituzioni Repubblicane rispetto all’orda un po’ barbara di Berlusconi, post-fascisti e leghisti. A questo si aggiungeva una fede praticamente cieca nell’ortodossia europeista il che ha portato all’abiura di comunismo, socialismo e cristianesimo sociale convertiti al neoliberismo globalista. Il punto è che Berlusconi e la sua gang, pur meno globalisti e di fatto meno liberisti del centrosinistra, hanno sempre professato il contrario, ovvero un’altrettanto cieca fede sulle magnifiche sorti del mercato. Senza praticare questo credo nella pratica con la stessa foga degli avversari. L’Ulivo prodiano era composto da “atei devoti” al mercato; il centrodestra invece da “devoti non praticanti”.

Il gioco delle parti è andato avanti fino al 2011: a quel punto, detronizzato Berlusconi, il Re si è mostrato nudo e senza la giustificazione del Male. Da allora tutte le più tremende misure anti-sociali sono state votate dal Pd. Dall’Iva al 22% alla Legge Fornero, dai tagli a sanità e istruzione e investimenti all’aumento della tassazione con record storico di disoccupazione. Tuttavia questa vera “macelleria sociale” non è stata pienamente percepita come scelta politica. La shock economy ha funzionato, il filoeuropeismo d’accatto e il terrore mediatico hanno mantenuto a galla il Pd, anche se nel 2013 quella che era una facile vittoria è diventata una “non vittoria”: proprio a causa dell’applicazione a-critica delle scelte di Berlino e Bruxelles (è facile dire che si è sempre sotto padrone: prima Mosca, poi la City, poi…).

Renzi, su questo, non è tanto peggiore (o tanto migliore) rispetto ai governi Monti o Letta: e infatti la critica degli angioletti della “minoranza Dem” fa davvero sorridere. Il problema è che Renzi è il frutto di un innesto dello stile del M5S (con un po’ di comunicazione berlusconiana) all’interno dell’unico partito organizzato italiano.

Durante il ventennio berlusconiano, il Pd e i suoi predecessori sono sempre stati il partito che, bene o male, flirtava con la “società civile”, con il “ceto medio riflessivo” si diceva. Più che con le classi sociali di sinistra di un tempo. L’associazionismo, il volontariato, l’ambientalismo, parte del mondo del lavoro, la borghesia colta, ignare di alternative di politica economica perché “Ce lo chiede l’Europa” (quindi è giusto a prescindere e si accetta), reputavano il Pd l’àncora delle regole democratiche e repubblicane. Gli perdonavano le debolezze vere o presunte. Menavano pure mannaie sociali, ma, poverini, erano i nipoti per linea diretta della Repubblica e della Costituzione.

Con il referendum del 17 aprile anche questo velo s’è perso. Per questo la vittoria è davvero di Pirro. Il Partito Democratico è definitivamente diventato il Partito 5 Stelle, più che il fantomatico Partito della Nazione. Un Presidente del Consiglio, accompagnato da un indegno comportamento di un ex Presidente della Repubblica, che chiede di non votare, annulla di fatto il residuo di eredità del vecchio centrosinistra, ovvero la partecipazione, la democrazia, la trasparenza.

Che Matteo Renzi faccia, ad urne appena chiuse, un discorso teso e per nulla conciliante è una dimostrazione ulteriore di come l’attuale dirigenza del Pd abbia definitivamente chiuso, a livello centrale, i rapporti un tempo stretti con la parte meno passiva o meno pigra della società italiana. C’è un tentativo, probabilmente inconsapevole, di rendere orizzontali i rapporti del vertice del Partito, che è anche il vertice del Governo (obbrobrio incompatibile). Una parte del paese è ufficialmente senza più la sua storica rappresentanza, reale o ideale. Come fai a relazionarti in maniera costruttiva in termini di partecipazione, civismo, idealismo, con chi ha chiesto di non partecipare ad un voto referendario in maniera così palese?

Come fai a valutare dello stesso peso la massa sorda (per quanto rispettabile in alcune sue accezioni) dei non votanti e i tanti italiani che, per educazione politica, familiare, consuetudine civica, hanno inscritto il tema della partecipazione al voto come elemento fondativo della cittadinanza? Hanno lo stesso volume in situazioni strategiche come i referendum col quorum; non sono equivalenti per i politici che sono alla ricerca di antenne sensibili all’interno della società. Da un lato, il vuoto. Dall’altro, un humus perso.

Riflessione che apre lo sguardo all’altro referendum, senza quorum, sulle riforme costituzionali, previsto per il prossimo mese di ottobre. Chiedere ai propri fan di votare (e chiedere ai politici locali ad esporsi pubblicamente a farlo, cosa diversa dal mimetizzarsi nell’astensionismo) dopo aver chiesto di astenersi è una mossa che può non piacere. E i risultati della rottamazione iniziano a farsi sentire (sondaggio La7).