Si ringraziano i giornalisti Roberto Santilli e Marianna Gianforte per la collaborazione nell’intervista video.

Per una lettura puntuale della cronaca dell’incontro, si legga l’articolo di AbruzzoWeb.

L’AQUILA – Un impianto da “utopia concreta”, come la chiama lui stesso, un piano di azione immediato che combacia con il classico keynesismo, ovviamente da ventunesimo secolo e dunque verde. Serge Latouche, invitato dal dipartimento di Scienze Umane de L’Aquila per una conferenza che si è svolta martedì 23 febbraio, ha avuto modo di relazionare sui classici temi della “decrescita“, termine lanciato da lui stesso, ha spiegato, “perché nel 2002 tutti parlavano di sviluppo sostenibile, che è uno slogan ma anche un ossimoro, per cui abbiamo contrapposto un altro termine che ha avuto successo”.

Ma quando dallo scenario utopico Latouche è sceso a quello dell’attuazione dello stesso nelle nostre società, le azioni evidenziate non sono state estremistiche: “La decrescita è un cammino, bisogna avviarsi nel suo sentiero”, ha detto l’intellettuale francese. E dunque “una riconversione ecologica delle economie”, “la fine della globalizzazione ultra-liberista che mette in guerra gli uni contro gli altri”, “la fine del mito delle esportazioni e una rivalutazione delle economie interne, come spiegava il più grande economista del Ventesimo Secolo, John Maynard Keynes“, alcune delle sue affermazioni. E inoltre: “L’obiettivo è quello di dare a tutti un lavoro“. Keynesismo, di fatto, o post-keynesismo, ovviamente “green“.

Nulla di molto diverso rispetto alle visioni programmatiche di buona parte della sinistra (ma non solo) che aspira ad un “New Deal verde“, oppure agli scenari di piena occupazione “verde” come quelli descritti in questo lavoro dall’economista statunitense della MMT Mathew Forstater Paper_Green_Jobs, tra l’altro presente qualche anno fa proprio a L’Aquila nell’ambito di un altro convegno partecipatissimo.

Quanto esposto sopra non è una critica a Latouche e ai pensatori e a coloro che si battono per un modello di vita ecologico. Anzi. Il pensiero latouchiano è sempre stimolante. Tuttavia crediamo che i veri intellettuali non siano coloro in grado di disegnare utopie, ma chi a partire da una nuova concezione del mondo riesca a individuare le azioni di cambiamento reali.

Da qui deriva il problema che i grandi sostenitori della decrescita hanno introiettato l’idea di un mondo “altro” da raggiungere e di conseguenza respingono le azioni utili al miglioramento dell’esistente poiché le ritengono figlie di una politica della crescita tout-court. Confondono strumenti con fini politici e rifiutando gli strumenti contrastano quei risultati politici che auspicano nelle intenzioni e rischiano di impedire nei fatti. Si tratta di una grande perdita di risorse ed energie umane ed intellettuali, purtroppo chiuse in un rischio di autoreferenzialità e sottratte alla sfida politica contemporanea.

Sottrazione che parte dallo stesso Latouche, come evidente dalla intervista video. Quando si risponde che vanno bene le politiche keynesiane “ma non per la crescita, bisogna dare lavoro a tutti e poi cercare di vivere bene”, si afferma un concetto lapalissiano, incontestabile. Oserei dire costituzionale: piena occupazione.

Oppure, alla domanda: “In che modo si possono attuare queste politiche, demandandole al mercato, allo Stato, o ad una via mediana tra questi due elementi”, la sottrazione latouchiana è tanto palese quanto poco concreta: “Né Stato né mercato, deve agire la società civile” e alle mie ulteriori richieste di comprensione dello slogan, stavolta, ha detto: “La società civile deve andare contro lo Stato e il mercato“. Il che purtroppo non significa nulla. Potrebbe essere una evasione dalla realtà, oppure il rifiuto di aderire a correnti di pensiero avversate pubblicamente per questioni di predominio intellettuale, quanto poi ricalcate una volta usciti dalla speculazione intellettuale.

Su un concetto, espresso sotto forma di domanda nell’intervista, vorrei invece approfondire la riflessione dei lettori. La “decrescita” è un concetto che si aggancia parimenti alla “crescita”, e dunque è speculare al tema del Pil. I “decrescisti” vorrebbero “uscire dall’economia”, anche se dovrebbero ammettere loro stessi che questa “fuga” dall’economia, per quando non definita, non significa in alcun modo la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, o, meglio ancora, la fine del capitalismo. La fine delle fonti fossili non significa fine del capitalismo, ad esempio.

Ho fatto presente a Latouche come le teorie post-keynesiane, ribadite coerenti con la realtà in documenti ufficiali della Bank of England, affermino chiaramente cosa avviene almeno negli Stati con moneta sovrana (quindi non nell’Eurozona): “Le tasse non pagano la spesa pubblica“.

Questo assunto libera l’economia dall’ultimo “numerino magico“, ovvero il dato della crescita del Prodotto Interno Lordo. Dato fondamentale, soprattutto in Eurozona (fortemente avversata da Latouche, va detto, come tempio dell’ultra-liberismo) perché ad esso sono rapportate le entrate dello Stato necessarie a garantire gli stipendi dei dipendenti pubblici, la Sanità, le pensioni, i servizi, gli investimenti.

Una volta invece separate queste due grandezze (Pil e imposte) e rese indipendenti, l’unico elemento da perseguire è davvero “l’interesse pubblico”, attraverso l’uso della “finanza funzionale” come descritto dall’economista Abba Lerner.

E l’interesse pubblico è una società dove tutti lavorano e dove si vive bene rispettando i vincoli naturali, per dirla con le parole di Latouche. Ma in tutto questo non si capisce cosa c’entri un termine come decrescita, quando parliamo invece di buon vecchio keynesismo adeguato alle esigenze ambientali e consapevole delle potenzialità della moneta moderna.