SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Ospitiamo un intervento altamente condivisibile di Mariella Giammarini sulla questione della “scomparsa” del cinema dal centro di San Benedetto.  Consigliamo a tutti coloro che hanno a cuore questa città e anche il concetto stesso di cultura come elemento caratterizzante la socialità, di leggere attentamente quanto segue.

Questo inverno sarà una stagione che si farà ricordare non  per il clima siccitoso, per il tepore da falsa primavera, ma perché per la prima volta, da quarant’anni, il Cineforum ha spento le sue luci. Era rimasta l’ultima ridotta del cinema cittadino, il Cineforum, dopo che con mesta reazione a catena le sale cittadine hanno proiettato il The end dell’ultimo spettacolo. E non torno a scrivere quello che in più occasioni ho scritto e narrato, ossia che il cineforum, nelle sue varie sedi, è stato il luogo di un’educazione sentimentale di alcune generazioni, il luogo dove il campanile si specchiava nei mondi lontani che lo sguardo dei cineasti ci hanno fatto conoscere e riconoscere, vorrei piuttosto ricordare che il cinema è stato parte integrante della tradizione sambenedettese.

L’ultimo decennio si consegna alla storia come l’epoca di uno scivolamento nell’anomia, di una progressiva e ostinata desertificazione culturale di questa città. Lo sfarfallio di “eventi” (termine insensato, che di per sé è spia di un consumismo eventuale, vale a dire episodico, dell’arte e dei frutti del lavoro intellettuale) non ha trovato il necessario sostegno di un progetto consapevole, di una scelta critica e di ampio orizzonte. L’ostinata negazione di dotare di un video proiettore digitale lo spazio del Concordia che ha soffocato l’ultima stagione del cineforum, ad esempio, non nasce da oculatezza nella gestione delle pubbliche finanze, ma dalla sciatteria, parente stretta dell’ignoranza.

San Benedetto, nel dopoguerra, aveva le sale cinematografiche e le frequentava: basterebbe avere voglia di ascoltare i racconti dei nostri anziani, per rivedere, con gli occhi dei ricordi, le file assiepate lungo i marciapiedi di via Risorgimento, in attesa di assistere, nel cinema Modernissimo,  al Cielo sulla palude di Genina, o al ciclo strappalacrime di Matarazzo, o anche scoprire quelli che sarebbero stati riconosciuti come capolavori del Neorelismo. La parola cinefili quegli spettatori neanche la conoscevano, ma lo spettacolo li attirava: venivano anche dalle campagne gli spettatori, muniti di merenda e provvista di semi, carrube e lupini.

Fato volle che l’edificio che accoglieva il Modernissimo diventasse poi la mia casa e abbia conservato nelle fantasie mitologiche degli stucchi di Sergiacomi una traccia dell’originario schermo: in fondo dico il vero, quando affermo di essere nata in un cinema. Come in molte famiglie sambenedettesi anche nella mia si andava al cinema e capitava di vederne anche due in giorno dei film annunciati dalla locandine che venivano consegnate alle vetrine dei negozianti. Pomponi, Calabresi, Dopolavoro-delle Palme erano le tappe di un percorso visionario: si andava al cinema anche per caso, perché ci si passava davanti e ci si concedeva la trasgressione di una sosta. Chi di quelli della mia generazione non ricorda come si varcasse la soglia della caverna delle ombre senza rispettare i tempi e spesso si cominciasse dalla fine per ritrovare l’inizio?

Oggi per vedere i film in uscita occorre emigrare a Cupra, se vuoi vedere quelli di qualità, o nei  centri commerciali, per seguire l’offerta di consumo. A San Benedetto, la multisala sorge in mezzo al nulla, offre spettacoli con avarizia oraria e scelte di visuale corta. L’esperienza mi fa  convinta che il cinema sia, debba essere, parte del tessuto urbano.  Andare al cinema crea agorà, lo spazio condiviso che fa di un aggregato urbano una polis. Questo cuore pulsante alla nostra città è stato sottratto. Non glielo hanno strappato, sì è solo lasciato che smettesse di pulsare.

La strada non è luogo di incontro, di dialogo, è solo luogo di passaggio. La chiusura delle sale ha lasciato spazio agli spacciatori di alcool, di un ozio alienato. Una città non può essere fabbrica dell’anomia. E l’identità non basta insegnarla nè fuori né dentro scuole che si proclamano buone, l’identità si assume anche per osmosi, dall’ambiente: la Bellezza, la fantasia, l’immaginazione devono essere  respirate, vissute.

Il cinema, grande spettacolo popolare, ha saputo nutrire con i suoi sogni le storie di molte generazioni. Deve tornare a farlo. Dunque è veramente un raggio di sole, una bella notizia la richiesta che da più parti arriva di riaprire una sala al centro, di recuperare, magari, lo spazio del cinema delle Palme. San Benedetto non ha bisogno di nuovi condomini, ha bisogno di un investimento intelligente: tornare a ospitare il Cinema sarebbe un investimento sul bene comune.     

Mentre spero che la rinnovata attenzione su questo problema cittadino non sia e non venga usata come un cavalluccio di Troia elettorale, mi piace anche pensare che ad accoglierci in questa nuova virtuale stagione siano volti noti, quelli di persone che negli anni hanno organizzato l’incanto estivo di Agosto in piazza; allestito gli incontri con I mestieri del cinema; aperto il dialogo tra Mondi lontani e mondi vicini e, infine, hanno tentato di restare a galla nell’ultima fase, quella in cui dal Cineforum sono davvero scomparse le lucciole, ossia gli occhi curiosi, avidi di vita degli adolescenti.

Sì, mi piacerebbe che il grande schermo tornasse al centro a San Benedetto e il Cineforum Buster Keaton reggesse la barra di questa rinnovata avventura: saprebbe di certo volgere la prua verso l’isola che non c’è, quella che chi ama il cinema non smette di cercare.