Ospitiamo un commento di Giusi Clementi, insegnante di Diritto ed Economia, sul tema del “gender” che sta riscuotendo molto interesse, con molte opinioni differenti, tra i nostri lettori.

 

Il gender esiste, o meglio, come correttamente si traduce in italiano, esiste “l’identità di genere e ne ha dato una precisa definizione il Parlamento italiano (non “la parte più conservatrice della chiesa“). Nella prima bozza della proposta di legge contro l’omofobia (Atti parlamentari, Camera dei deputati, XVII legislatura, documento n.245, art. 1) leggiamo: «Ai fini della legge penale si intende per identità di genere la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrisponde al proprio sesso biologico». Nella stessa circolare (n.1975/2015), citata nell’articolo, si sostiene tra l’altro «la necessità di favorire l’aumento delle competenze relative all’educazione all’affettività,  al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere».  

Per capire cosa questo significhi, basta leggere la “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere“, documento del Ministero delle Pari opportunità che, alla pagina 17, afferma: «Sarebbe auspicabile un’integrazione e un aggiornamento sulle tematiche LGBT nei programmi scolastici e una promozione dell’informazione e comunicazione non stereotipata delle identità di genere e degli orientamenti sessuali».

Ma è vero che nessun sociologo o psicologo qualificato ha mai affermato che esista una teoria gender? La prima apparizione e costruzione del concetto è opera proprio di psichiatri, psicologi e psicanalisti americani, a partire dal 1955. Fu così con lo psicologo sessuologo americano John Money, reso tristemente noto per il caso di David Reyner, bambino al quale, in seguito ad un’operazione chirurgica sbagliata, fu riassegnato chirurgicamente il sesso, rendendolo una bambina. L’idea di Money che l’identità sessuale non coinciderebbe con l’identità biologica lo spinse a sottoporre David a trattamenti ormonali, ma il bambino non è mai riuscito a identificarsi in una bambina. All’età di 15 anni il ragazzo ha voluto subire un’operazione chirurgica per ritornare uomo e, all’età di 38 anni, ha finito per suicidarsi.

La nozione di gender identity “identità sessuale” la introdurrà lo psichiatra Robert Stoller (1925-1991) al Congresso internazionale di psicoanalisi di Stoccolma nel 1963 e sempre Stoller pubblicherà il testo “Sex and gender. The development of masculinity and feminility“. L’idea, secondo cui l’identità sessuale corrisponde all’identità che un individuo si sceglie soggettivamente per autoidentificazione o auto-assegnazione, comincia ad interessare sempre più i sociologi. Infatti, verso la fine degli anni Sessanta, il concetto si traferisce nell’ambito delle scienze sociali (soprattutto ambienti universitari americani e francesi) per trasformarsi in un progetto socioculturale.

Con la contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta il concetto di gender si arricchisce. Da una parte si allea al femminismo (ma secondo la logica del “femminismo di genere”, per la quale la parità dei sessi passa attraverso la distruzione dello “stereotipo femminile” di moglie e di madre) e dall’altra, verso la fine degli anni ’70, si lega esplicitamente alle rivendicazioni omossessuali (si veda Monique Witting, leader del movimento lesbico francese o la transessuale australiana Raewyn Connell, nata Robert William Connell, professoressa di sociologia all’università di Sydney, consulente dell’Onu in materia di parità dei sessi).

Non mi addentrerò ora nella teoria “queer”, che si sviluppa negli anni ’90 come prolungamento diretto del gender (si vedano Judith Butler, Lauren Berlant, Eve Kosofsky Sedgwick), il cui scopo non è determinarsi nella identità sessuale che si preferisce, ma il non definirsi mai, mantenendosi in uno stato di scelta perpetua e restando liberi da ogni identità (ci sono oltre 50 generi previsti da Facebook). Per capire concretamente quali sono i rischi di queste teorie, basta guardare cosa accade nel Regno Unito: il servizio sanitario nazionale britannico ha ufficialmente autorizzato l’uso di un farmaco, il Gonapeptyl, finalizzato a ritardare la pubertà dei bimbi e dare loro più tempo per decidere se diventare maschi o femmine. Si tratta di uno di quei farmaci noti come bloccanti ipotalamici, che arrestano lo sviluppo degli organi sessuali e riducono al minimo l’impatto del futuro intervento chirurgico di cambiamento di sesso.

Sotto l’impulso delle femministe di genere, dagli anni Settanta, il termine gender è entrato nel linguaggio dei testi  dei documenti ufficiali delle conferenze di Rio, di Vienna, del Cairo, etc. Per capire quanto queste teorie ispirino gli orientamenti dei governi nazionali e sovranazionali basta guardare il documento ufficiale “Standard sull’educazione sessuale in Europa” dell’OMS per responsabili delle politiche, autorità scolastiche e sanitarie, e specialisti (pagina 38/44), dove si propongono temi quali: la masturbazione infantile precoce, l’amore verso persone dello stesso sesso, l’utilizzo dei contraccettivi e le prime esperienze sessuali, nella fascia d’età compresa tra i 0 e i 12 anni.

Non ho letto il libricino “Una bambola per Alfredo“, ma nella presentazione della casa editrice, così come riportata nell’articolo di Massimo Falcioni, si tratterebbe di «un libro contro gli stereotipi di genere, quelli che vorrebbero imporre giochi per femmine e giochi per maschi, cercando di correggere eventuali diverse e legittime aspirazioni». Non so gli altri, ma a me la morale della storia, più che a “come diventare bravi papà“, fa pensare a qualcos’altro: che nella differenza tra maschio e femmina non c’è nessun valore, semmai un ostacolo da abbattere.

Faccio presente che della stessa Casa Editrice Edt sono stati stampati anche altri libri per bambini ed adolescenti con una fin troppo chiara visione ideologica: “Quattro ragazzi per due papà“, “Alex e Alex, lui e lei nello stesso corpo” e altro ancora. Non mettendo in dubbio la professionalità e la buona fede di quanti sono impegnati nell’iniziativa “Nati per leggere“, sarebbe utile e saggio da parte dei genitori chiedere di sapere in anticipo quali testi sono stati scelti, o meglio ancora di essere coinvolti nella scelta di questi.

Visti i tempi che corrono, a mio parere, è sempre valido ed educativamente insostituibile lo stesso vecchio sistema di sempre: la mamma e il papà, accanto al letto del proprio figlio, la sera, che leggono una favola, lasciando che, dopo ogni tre frasi, siano interrotti con mille “perché?”.