Ha fatto scalpore, pochi giorni fa, la notizia degli impiegati comunali di Sanremo che non cantavano ma suonavano bene le loro tesserine magnetiche, a volte anche in mutande, agli orari di entrata e uscita mentre nel frattempo se ne stavano a casa, oppure a fare compere oppure in canoa. Ad essere coinvolta non è una sparuta minoranza di mele marce, come piace dire ai difensori delle cause perse, bensì la maggioranza dei “lavoratori”. Ma, se ricordiamo bene, non è di troppo tempo fa una notizia simile riferita al Comune di Locri: lì era il sindaco esasperato a denunciare che la maggioranza degli impiegati quotidianamente marca visita e, a differenza di Sanremo, non timbra neppure il tesserino. E credo, personalmente, che a un diffuso controllo sul territorio nazionale, anche molti altri enti pubblici presenterebbero situazioni affatto simili.

Il coro dei giornalisti e degli opinionisti è unanime: questi imbroglioni fanno un danno economico grandissimo alla loro comunità e allo Stato.

Io però non credo che costituiscano danno economico ed è di questo che vorrei discutere. Credo altresì che da tali vicende, sempre più diffuse, dovrebbero scaturire riflessioni più profonde e importanti che non siano la semplice ironia o la condanna dei furbetti del tesserino, cose che piacciono tanto agli italiani ma che non contengono nessun elemento di analisi della realtà.

L’assunto al quale voglio arrivare lo dico subito: tutti quei “lavoratori” assenteisti, ognuno con le proprie modalità di assentarsi, non fanno nessun danno economico semplicemente perché sul luogo di lavoro non hanno nulla da fare, nulla di utile per i cittadini e per il Paese, intendo. Prova ne è il fatto che nessuno, nei vari casi, per anni, si sia accorto della loro latitanza.

Il lavoro da fare non c’è: non solo nell’accezione di lavoro salariato, che quindi non porta uno stipendio, ma anche e soprattutto come attività produttiva tout court. È ora di dirlo una volta per tutte. Basta con la stucchevole retorica del lavoro che nobilita e dei lavoratori. Dobbiamo uscirne, non domani, ma oggi stesso. Siamo pieni di merci e di servizi, che vengono prodotti da macchine, da computer, da cinesi poveri. Semmai quello che manca è il denaro per acquistare quelle merci e quei servizi. Inoltre, nei prossimi dieci anni, ce lo dicono gli esperti, la cosiddetta rivoluzione industriale 4.0 soppianterà le residue mansioni che oggi ancora vengono svolte dall’essere umano.

A leggere queste parole gli impiegati pubblici avranno da protestare ma, se saranno sinceri con se stessi, dovranno ammettere che il loro lavoro ormai riguarda quasi esclusivamente la fatica di mantenere la posizione: svolgere attività che dimostrano il loro impegno ma che in nulla sono utili a nessuno; barcamenarsi fra politici che vanno e vengono; raggiungere parametri grazie ai quali ottenere premi di produzione; guardarsi da colleghi usurpatori, eccetera. “Lavoro” faticoso tutto questo, non c’è dubbio, ma che va ad esclusivo vantaggio di chi lo compie e non della comunità. Pensiamo solo alla mole di “lavoro” burocratico che compiono gli insegnanti di ogni ordine e grado: massimamente usurante ma di nessuna utilità per il bene comune. E pensiamo a quello che dovranno fare, con le nuove leggi, per ingraziarsi il dirigente, al fine di non essere rimossi o di aumentare il proprio potere: lavoro faticoso ma senza alcun vantaggio per nessuno. E non che il settore privato sia esente da tali contraddizioni, tutt’altro.

Come affrontare dunque la situazione? Con la nauseante retorica dei governi che si succedono e che promettono la crescita dell’occupazione mediante artifici palliativi i quali consentono solo di sbandierare l’aumento (presunto) di mezzo punto percentuale? Con la lamentela infinita di tutti quelli che hanno come occupazione principale la ricerca di un lavoro (non importa quale, né con chi, né, soprattutto, se sia utile a qualcuno)?

Credo che la risposta più seria e dignitosa sia proprio quella del reddito di cittadinanza. Costituirebbe una base di dignità, estesa a tutti, che oggi si pone come irrinunciabile. Eviterebbe, inoltre, il lavoro schiavizzato: chi lavorerebbe al call center per 500 euro se li ricevesse già dallo Stato?

In fondo, lo stipendio degli impiegati di Sanremo e di Locri, così come quello stratosferico delle migliaia e migliaia di dirigenti della Regione Sicilia per esempio (e la lista potrebbe continuare a lungo), è già reddito di cittadinanza, solo della tipologia più iniqua e scellerata.

Varrebbe la pena, invece, istituirlo secondo criteri di equità e giustizia sociale.

Naturalmente tale provvedimento andrebbe associato a un “lavoro” culturale. Per esempio, andrebbe capita l’importanza dell’autoproduzione dei beni. Ridotto il consumo delle merci inutili e dannose. Provando il più possibile a svincolarsi dal denaro in favore delle relazioni umane. In definitiva, andrebbe disseppellito il vecchio concetto di felicità della vita, oggi sommerso dalla crescita esponenziale di tristi bisogni il cui soddisfacimento gli italiani pretendono in uno scenario da morti viventi.