SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Ancora in sella, per ora. Sabrina Gregori riflette sul da farsi, con l’idea delle dimissioni sempre più pressante.

L’addio della segretaria è dietro l’angolo e probabilmente anticiperebbe interventi superiori chiamati a sbloccare una situazione di paralisi riversatasi sull’amministrazione comunale.

Eppure, ad oggi nessuna mozione di sfiducia è stata presentata e l’assemblea degli iscritti le ha recentemente ribadito l’appoggio. “Mi auguro che resti, fossi in lei non cederei”, dice il coordinatore del circolo centro Roberto Giobbi. “La decisione è personale, spetta a lei. Ma non capisco come si possa mandare via una segretaria che ha i numeri dalla sua parte. Pure l’ipotesi di commissariamento non ha senso: ci vorrebbe un’accusa chiara e grave. Mandare via una persona in questa maniera mi pare una vigliaccata enorme. Sabrina è stata messa lì da quelli che ora la vogliono cacciare. Deve resistere, ma non posso obbligarla. Anche la sezione nord dovrebbe difenderla”.

Salvare il Comune o la segreteria di partito? Secondo Giobbi assecondare le volontà dei ribelli sarebbe un errore sotto il profilo comunicativo: “Daremmo l’idea di aver ceduto ad un ricatto. E’ vero che salvi l’amministrazione, ma il segnale sarebbe negativo. A San Benedetto qualcuno non merita di sedere in Consiglio, però gli elettori hanno sempre ragione. Io spero che il Bilancio venga approvato e che si termini il mandato. In questi ultimi mesi potremmo portare a casa alcuni obiettivi, dopo anni di difficoltà qualcosa si sta sbloccando”.

Un fatto è accertato: fosse per Giobbi non ci sarebbe alcuna mediazione. “Sarebbe un atto eroico, ma la città pagherebbe le conseguenze. Io non sono il sindaco, Giovanni è chiamato a mediare e a pensare al bene della città. Un primo cittadino ha doveri diversi dal mio”.

Intanto si allarga il fronte pro-Gregori, tanto da dare vita allo slogan “Je suis Sabrina” sulla scia del celebre “Je suis Charlie”, riferito ai tragici accadimenti parigini del gennaio scorso. Un accostamento azzardato che ha scatenato reazioni indignate all’interno dello stesso Partito Democratico.