ACQUAVIVA PICENA – Quando si sente parlare Gherardo Colombo non si può far a meno di constatare, già dopo pochi minuti, che si ha di fronte un uomo di una cultura fuori dalla norma, col forte sospetto che essa sia stata forgiata anche altrove rispetto ai codici che lo hanno consacrato tra i magistrati più importanti della storia italiana. E infatti la presentazione del suo libro “Lettera a un figlio su mani pulite” avvenuta ad Acquaviva nella serata del 14 luglio, è solo un’occasione, un espediente che parte dalla narrazione di quei fatti di 23 anni fa per arrivare ad una profonda quanto didattica analisi della storia e dei fenomeni sociali del nostro paese e di uno in particolare che sembra non essere mai sparito né dalle nostre aule giudiziarie e né tanto meno dalle nostre prime pagine: la corruzione.

“Da subito in quel febbraio 1992 mi chiesero di affiancare Di Pietro nelle indagini di Mani Pulite – esordisce Colombo – ma non ne avevo voglia perché già in passato, a inizio anni ’80, con le indagini sulla P2 e su fondi dell’Iri c’erano stati dei sistematici quanto sospetti spostamenti della competenza alla procura di Roma da parte della Cassazione che mi avevano scoraggiato e che più tardi mi hanno convinto del fatto che, nel caso i processi fossero rimasti da noi a Milano, Tangentopoli poteva essere scoperta almeno 10 anni prima”.

Entrò nel pool investigativo due mesi più tardi rispetto a quel famoso 17 febbraio, il giorno dell’arresto di Mario Chiesa. Poi 13 anni di indagini “oltre 5 mila persone coinvolte, tra cui quattro premier, 300 parlamentari e quasi tutte tra le più grandi imprese di questo paese” racconta l’ex Pm. “Scoprimmo un sistema con le sue regole e logiche capillarmente diffuso a partire dal basso oltre che nelle alte sfere, a partire per esempio dal vigile che ometteva di fare le multe per lo sconto dal salumiere o l’ispettore del lavoro che chiudeva un occhio sui muratori senza elmetto per poche centinaia di migliaia di lire”.

Nonostante all’epoca la scoperta di Tangentopoli egemonizzò i mass media e sembrò a tratti capace di smuovere una storica rivoluzione civile italiana vista l’indignazione generale per il coinvolgimento di numerosi uomini politici di spicco, fu allora che il magistrato iniziò a capire che “la corruzione non sarebbe mai sparita perché parte integrante di un modo di pensare che è un tratto distintivo di tanti italiani comuni come quelli che, per esempio, si indignano per un politico “ladro” ma che tacciono davanti al dentista che non fa la fattura in cambio di sconti”. Qui la disquisizione si fa anche storica e Colombo arriva a definire l’italiano “più un suddito che un cittadino che si rapporta da sempre col potere e le istituzioni da suddito quale si sente ovvero preferendo chiedere favori e preferendo supplicare piuttosto che esercitare diritti”.

E quando un modo di pensare è talmente radicato in un popolo, i fenomeni umani correlati a quel modo di pensare non possono sparire. Si trasformano, cambiano vesti e facce ma pur camuffati rimangono nostri compagni finché una qualche opera, che per forza di cose deve essere di natura educativa, riesca finalmente e faticosamente a mutare quel pensiero; in caso contrario non dovremmo meravigliarci di vedere ancora certe prime pagine così spaventosamente simili a quelle di allora. Proprio per questo Gherardo Colombo ha deciso dal 2007 di lasciare la sua attività di magistrato “perché mi sono sentito come un idraulico che per 33 anni ha cercato di ripristinare l’acqua lavorando sul rubinetto della cucina quando il vero problema era in cantina, nel rubinetto centrale”.

Qual è allora la strada, se ce ne è una, per sconfiggere un fenomeno che è cultura diffusa ma anche fattispecie di reato?

Per Colombo “un fenomeno culturale si sconfigge solo facendo controcultura ed educazione, a nulla serve un inasprimento delle pene perché nel nostro paese statisticamente 9 persone su 10 rimangono impunite e misure più aspre non farebbero altro che aumentare l’ebrezza data dall’impunità, per non parlare del fatto che la punizione fine a sé stessa in risposta alle esigenze forcaiole di turno, storicamente, è tipica di uno stato verticale e accentratore e non di una democrazia moderna quale dovrebbe essere la nostra”.

Nel frattempo però i dati Ue ci dicono che il 50% della corruzione europea arriva dal Bel Paese e che questa solo da noi ci costa la bellezza di 60 miliardi di euro all’anno “ma neanche questi dati ci spaventano o spaventano le nostre istituzioni” continua l’ex togato che sembra infine avere la ricetta giusta per l’italiano “così abituato al benessere dell’immediato da non riuscire a vedere i benefici della lungimiranza e della responsabilità, gli unici due strumenti che, se si avrà la pazienza e la voglia di usare, ci libereranno dai nostri demoni e vizi e alla fine anche da quell’obbedienza che solo i sudditi e non i cittadini di una democrazia devono mostrare”.