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“E mentre la luna si levava più alta le inutili case cominciarono a confondersi gradualmente finché non mi resi conto dell’antica isola che spuntò davanti agli occhi dei marinai olandesi, un seno verde e fresco del nuovo mondo. I suoi alberi scomparsi, gli alberi che avevano ceduto il posto alla casa di Gatsby, avevano fatto da ruffiani bisbiglianti all’ultimo e immane dei sogni umani; per un attimo transitorio e incantato l’uomo doveva aver trattenuto il respiro alla presenza di questo continente, costretto a un’estatica contemplazione che né capiva né desiderava, faccia a faccia per l’ultima volta nella storia con qualcosa commensurato alla sua capacità di meraviglia”. Così recita uno dei più famosi explicit della storia della letteratura moderna, l’explicit de “Il Grande Gatsby”, 1925, una delle più famose opere di Francis Scott Fitzgerald. In queste poche righe l’autore vuole immortalare la meraviglia e lo fa tramite l’immagine dei marinai olandesi del sedicesimo secolo che, per la prima volta nella loro vita, vedono il nuovo mondo, l’ultima volta che l’uomo, secondo Fitzgerald,  ha provato nella storia una meraviglia di tale grandezza e portata, una meraviglia generata da qualcosa di assolutamente incontaminato, nuovo e che già profondeva eco di promesse mirabolanti. Se guardiamo un po’ più a fondo, queste poche righe sintetizzano l’essenza di uno degli aspetti storicamente più ricorrenti dell’animo umano: l’esplorazione, la ricerca della felicità in luoghi nuovi che gli consentono di liberare una meraviglia e una speranza intense e primordiali. L’essenza dell’istinto migratorio in fin dei conti, una costante della millenaria esperienza umana.

Nello scorso numero abbiamo parlato, riallacciandoci al discorso delle migrazioni, di un flusso particolare che sul finire degli anni ’40 portò, sull’onda della riforma agraria post-bellica, molte famiglie marchigiane a emigrare nelle campagne toscane, dove si stabilirono dando vita a numerose imprese agricole. Forse scomodare Fitzgerald e i marinai olandesi vi sarà sembrato un po’ eccessivo come riferimento a uno spostamento di “appena” 500 chilometri e per lo più all’interno del medesimo paese, ma in tempi bui come questi, in tempi in cui per qualcuno gli esseri umani e i loro istinti naturali, come quello migratorio, sono da considerarsi atti criminosi, deprecati e deprecabili, forse vale la pena ricordare che certi comportamenti sono endemici tra gli appartenenti alla razza umana.

Come ogni cosa nuova anche le persone, quando sono nuove, generano sentimenti di timore e diffidenza e più le differenze culturali sono marcate più questi sentimenti si fanno marcati a loro volta. E’ un meccanismo naturale, quasi paragonabile a un movimento incondizionato ed è un fenomeno a cui neanche i marchigiani, in quegli anni del dopoguerra, si sono potuti sottrarre. “Mambrucchi!  (espressione spregiativa con cui ci si riferisce a uno straniero paragonabile alla parola terrone) Accidenti al treno che vi ha portato!” oppure “Arabi” o ancora “Chissà che penserete di fare voi marchigiani scassando la terra, troverete il petrolio?”  Questi alcuni degli appellativi che ricorda Gioconda Merli che nel 1953 si trasferì da San Benedetto a Bolgheri (Li) assieme al marito.  E c’è anche chi, tra le voci dei vecchi migranti, racchiuse nel libro “Quelli di lìeggiù”, fa un’analisi ancora più approfondita dei rapporti iniziali fra i toscani e quei contadini venuti da est. Giuseppe Sgariglia, classe 1937 e originario di Massignano, ricorda che “venivamo avvertiti con diffidenza dai toscani, che forse, non conoscendo la cartina geografica, pensavano fossimo venuti per fare affari loschi” e ancora “la diffidenza era la stessa con cui sono visti oggi gli extra-comunitari”. E poi le relazioni, l’endogamia, fenomeno da sempre costante in comunità di “stranieri”; lo stesso Giuseppe Sgariglia ricorda come “i matrimoni avvenivano sempre e solo tra marchigiani, in quei primi anni era davvero raro che un marchigiano sposasse una toscana e viceversa, le toscane avevano una emancipazione diversa ed era impensabile per loro lavorare nei campi con la stessa intensità delle donne marchigiane, che lavoravano quanto se non di più rispetto agli uomini”.

Il professor Fedele Ruggeri, docente di Politica Sociale presso l’Università di Pisa e tra coloro che, nel 2009, ha contribuito alla stesura di quella raccolta di testimonianze e voci che è “Quelli di lìeggiù”, punta il dito su un elemento ricorrente nell’esperienza dei marchigiani in Toscana: la sfida. Per Ruggeri leggendo le esperienze di quei migranti “si rimane colpiti dal grande sacrificio e dalla fatica, dalla determinazione ad inseguire un obiettivo e dalla scelta di investire tutto su quell’obiettivo ridisegnando e subordinando ogni altra possibilità”, un elemento di riflessione attuale secondo lo stesso docente anche “alla luce dei nostri tempi in cui nuovi ospiti raggiungono il nostro paese mentre gli italiani faticano a trovare prospettive per loro stessi, una provocazione e una sfida appunto a guardare lontano e ad avere qualcosa a cui mirare, un sogno per cui sacrificarsi.”

E’ facile quindi, con le dovute differenze, vedere un qualche parallelismo tra le migrazioni attuali, extra-comunitarie e le migrazioni di allora. In fondo gli elementi ci sono tutti, come le differenze culturali ad esempio. I marchigiani erano cattolici praticanti, molto più dei toscani, devoti a Sant’Antonio Abate, patrono del bestiame, durante la festa del 17 gennaio si riunivano tutti “tra canti, balli, fuochi d’artificio e vino” ricorda la sambenedettese Rita Felicetti “suscitando l’ilarità delle persone del luogo perché festeggiavamo un santo che per loro praticamente neanche esisteva”.

Ma come in tutte le storie di trasferimenti e integrazione in una nuova comunità ci dev’essere anche l’elemento di speranza, che per forza di cose non può essere limitato ai soli due elementi della sopportazione e del tempo, serve qualcosa di più, un gesto che con maggior vigore si levi dal gruppo e che inequivocabilmente simboleggi l’accettazione. Per i marchigiani questo elemento venne dagli stessi marchesi, che negli anni precedenti avevano venduto i terreni proprio ai nostri conterranei. Sempre Gioconda Merli ricorda la figura della marchesa Clarice Incisa e del pediatra, il dottor Folena, “che lei faceva venire, per i nostri bambini, gratuitamente a casa ogni 15 giorni”. Gratuito era anche il “pulmino che la stessa marchesa metteva a disposizione per i nostri figli affinché non fossero costretti ad andare a scuola a piedi” e poi la scuola di San Guido, presente anche in una poesia di Giosuè Carducci, che in questi posti trascorse l’infanzia, una scuola all’inglese col rientro al pomeriggio e i sabati liberi che era sicuramente figlia delle contaminazioni anglosassoni e di una mentalità piuttosto progredita per l’epoca come quella dei marchesi Incisa Della Gherardesca e che fu, secondo Rita Felicetti, “un grande elemento di integrazione per i nostri figli col tessuto sociale locale e, nonostante qualche presa in giro, fu il principale strumento di accettazione” visto che gli adulti molto poco tempo avevano per intessere relazioni di amicizia con i toscani “date le tante ore che passavamo a lavorare nei campi” ricorda ancora Giuseppe Sgariglia.

I marchigiani insomma, che oggi sono parte integrante e molto importante di quella comunità, passarono attraverso contrasti e diffidenze che tra gli uomini sono sentimenti fisiologici e naturali quando ci si confronta col diverso, ma l’insegnamento che quei contadini con la valigia ci hanno tramesso è che quella stessa persona così diversa da noi può nascondere anche un grande potere di ispirazione, perché può insegnare, dal momento in cui dà prova di sé con successo nell’ambito della sua sfida, a dare il giusto valore al sacrificio mirato al raggiungimento della felicità.