SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Cinecittà amore mio. La scintilla tra Christian De Sica e gli studios romani scocca a 8 anni, quando nel 1959 papà Vittorio lo porta sul set de “Il generale Della Rovere” di Roberto Rossellini.

“Nel mondo sono famose solo Hollywood e Cinecittà”, dice De Sica. “Nessuno sa come si chiamano gli stabilimenti cinematografici di Spagna, Francia o Germania”.

Ad accogliere l’attore c’è un Palariviera pieno in ogni ordine di posti, che applaude, acclama, ride e si diverte. Sul palco Christian non è da solo. Marco Tiso dirige un’orchestra distribuita su una struttura verticale multipiano, mentre i vari sketch vengono accompagnati dal corpo di ballo e dai bravi Daniela Terreri, Daniele Antonini e Alessio Schiavo.

Arricchito dalla sapiente regia di Giampiero Solari e dalle coreografie di Franco Miseria, “Cinecittà” è un viaggio tra passato e presente. Sullo sfondo lo Studio 5, riempito dalla tenera voce felliniana – affidata all’imitazione di Schiavo – che fa da prezioso collante.

Nella dimora del cinema entrano star, geni incompresi, cialtroni e aspiranti comparse che devono sottoporsi al famigerato provino. De Sica racconta le sue prime volte, l’obbligo di adattarsi a qualsiasi ruolo pur di essere scritturato, dal gerarca fascista al partigiano, passando per la suora.

Proprio le comparse donano epici aneddoti, inaspettati pure per lo sceneggiatore più creativo. E’ il 1968, si gira “Le scarpe del pescatore” (in Italia distribuito col titolo “L’uomo venuto dal Kremlino”) con Anthony Quinn nei panni del Papa. La produzione decide di realizzare alcuni ciak in Piazza San Pietro, ma arrivata in Via della Conciliazione si imbatte in una manifestazione sindacale. Quinn se ne torna in fretta e furia a Cinecittà, a differenza delle comparse che vestite da finti cardinali dentro un pullman si affacciano dai finestrini e cominciano ad insultare gli operai per l’annullamento della busta paga quotidiana.

Nell’impianto un tempo denominato ‘panettone’, non si possono non citare i cinepanettoni. De Sica si lancia in un’auto-assoluzione scherzosa, consegnandosi una laurea honoris causa in materia. Trent’anni di trionfi al botteghino non si rinnegano, soprattutto se la gavetta è stata lunga e faticosa: “Se il mio film faceva il botto, la volta dopo mi concedevano camerini coi controfiocchi. Se invece si rivelava un flop magari manco te lo davano”.

Durante lo spettacolo il più coccolato è Alberto Sordi, con cui l’attore ha lavorato in due occasioni: “Il malato immaginario” e “Vacanze di Natale 1991”. Dodici anni di distanza, tra affettuosi dispetti subìti e restituiti: “La prima volta ero emozionato, feci delle papere. Alberto mi si avvicinò e minacciò di farmi doppiare. Nel 1991 lui era invecchiato e non riusciva a mantenere il ritmo dei promo cinematografici. Allora mi misi alle sue spalle e gli rubai la battuta: guarda che ti faccio doppiare. Si mise a ridere”.

Prima dei saluti affidati ad una versione rivisitata di “New York, New York”, De Sica rispolvera un vecchio desiderio già confessato nel libro “Figlio di papà”. Si tratta della trasposizione cinematografica del dietro le quinte de “La porta del cielo”.

Nel 1944, il neorealista Vittorio De Sica si convinse a realizzare un film dal genere religioso (nel cast spiccava Maria Mercader, mamma di Christian) che narrava di un lungo viaggio in treno verso il Santuario di Loreto di un gruppo di pellegrini in cerca di miracolo. La troupe si trasferì all’interno della Basilica di San Paolo fuori le Mura e qui rimase per oltre un anno, nonostante la pellicola si fosse esaurita dopo pochissimi mesi. Eppure De Sica portò avanti il progetto, in quanto l’obiettivo primario di quell’avventura era quello di nascondere ebrei, omosessuali, dissidenti e perseguitati politici dalle retate di tedeschi e fascisti.

“Il vero miracolo non fu quello che raccontò nel film, bensì quello reale di tante vite salvate”.