Dopo la lettura di questo articolo (clicca qui) ho avuto un breve scambio via e-mail con Mario Deaglio, giornalista de La Stampa (tra l’altro marito dell’ex ministro Elsa Fornero). Avevo appena pubblicato l’articolo contenente un video sulla San Benedetto del Tronto del 1958, in pieno miracolo economico. Le risposte di Deaglio sono a mio avviso deludenti e persino troppo comuni. Ho deciso di adattare la mia lettera in un articolo che spero possa essere utile ai lettori.

 

Ovviamente nella sua analisi vi possono essere degli elementi da valutare, e sicuramente l’approccio classico conduce ad un tipo di evidenza di quel genere. Mi permetto di aggiungere che, con questo tipo di analisi, figlio degli stessi meccanismi che ci hanno condotto a questa crisi infinita, l’orizzonte di uscita è (potenzialmente) ultradecennale, ma sarebbe più facile, piuttosto, garantirsi un declino inesorabile. La realtà muta a seconda del tipo di occhiali che si indossano e vorrei tentare di mutare lo sguardo un po’ stereotipato dell’analisi neoliberista. Altrimenti restano soltanto scenari di distruzione economica e sociale. E la storia ci insegna che gli uomini (o le masse, come si usava dire un tempo) reagiscono in maniera brusca qualora la compressione dei diritti e delle aspettative arrivi a superare la normale sopportazione.

Lei afferma che la crisi dell’Italia deriva da un sistema pensionistico senza pari (lei parla di 80 miliardi). Ci sono due analisi da fare: la prima, è che, se questo fosse il motivo, allora ad esempio la Spagna, che ha il sistema pensionistico più “leggero” d’Europa almeno tra i grandi paesi, non dovrebbe aver avuto alcun tipo di problema. La seconda è questa: cosa avverrebbe se la spesa pensionistica scendesse ad esempio della metà? Naturalmente nella sua ottica – se ho ben compreso – una metà potrebbe essere reinvestita dallo Stato, una metà all’incirca usata per ridurre il debito pubblico, alimentando la spirale degli avanzi primari.

Questa ipotetica operazione avrebbe dunque come effetto quella di ridurre alla fame milioni di poveri pensionati, aiutare lo Stato a compiere qualche investimento, garantire i detentori di titoli pubblici sulla loro solvibilità. Può mutare le proporzioni a seconda delle convenienze, ma questi sono gli effetti. La diminuzione dei consumi sarebbe recessiva, naturalmente.

Però devo farle una provocazione: se in Italia una sola persona lavorasse e fosse in grado di produrre tutto quanto necessario sulla base dei consumi degli altri 59.999.999 di italiani, lei si preoccuperebbe di diminuire il reddito dei pensionati per timore che non abbiano più nulla da acquistare, o piuttosto di essere sicuro che quel solo italiano sia in grado di produrre tutto quanto il necessario?

Cioè si preoccuperebbe di ridurre la domanda interna, come lei scrive, o invece occorre garantire che l’economia non venga limitata nelle sue capacità produttive da una domanda artificialmente ridotta? Se abbiamo un deficit produttivo (un quarto della produzione persa in pochi anni) abbiamo intenzione di ripristinarlo garantendo reddito adeguato alle famiglie (e quindi anche ai pensionati) oppure continuiamo a distruggere la nostra cultura di impresa riducendo il reddito con le politiche di austerità?

Lei converrà con me che la riduzione del reddito, o almeno una sua mitigazione, può aver ragione di essere attuata in maniera ragionevole e sensata soltanto se quell’unica persona non possa produrre oltre. Si sia, di fatto, in uno stato di piena occupazione e sfruttamento dei fattori produttivi e ogni sforzo per aumentare questa tensione, con le tecnologie disponibili, rischia di provocare inflazione.

Per quanto riguarda la corruzione e l’evasione fiscale (posto che non sono fattori scatenanti della crisi, altrimenti l’Italia degli anni 60 e 70 o alcuni degli attuali Brics conoscerebbero dati ben peggiori di quelli attuali di Olanda e Finlandia) occorre ovviamente combatterli, e per prima cosa conoscere dove esse si annidino con particolare concentrazione. Alcune ricerche testimoniano come esse sarebbero preponderanti laddove i capitali sono alti, piuttosto che nei piccoli esercizi dove avrebbero un impatto assoluto abbastanza modesto. Qui uno dei tanti articoli, tratto da La Repubblica.

INVESTIMENTI Lei afferma che uno Stato nelle condizioni dell’Italia (a causa dell’alta spesa pensionistica?) non può più fare investimenti consistenti. Questo è vero con l’euro quale moneta straniera che va presa in prestito ai tassi di interesse decisi dai mercati. Se guardiamo i dati delle ultime manovre italiane, dove la voce “investimenti” viene via via compressa, costringendoci all’inesorabile declino (mentre noi “risparmiamo”, le altre nazioni stimolano l’economia senza vincoli). Converrà con me che non possiamo accettare questo declino, e anche formulare ipotesi differenti: basterebbe che applicassimo un deficit del tipo della Spagna o della Francia, e avremmo circa 40 miliardi da spendere per investimenti (o detassazioni). Se non avessimo i vincoli dell’Eurozona, potremmo agire come Stati Uniti, la Gran Bretagna, e via dicendo, liberi di creare ricchezza.

Pensi che solo negli ultimi due anni (e con il 2014 la situazione peggiorerà) se ci fossimo comportati come la Francia avremmo beneficiato di 40 miliardi di euro spendibili in investimenti e tasse; come la Spagna circa 170 miliardi. Qui le tabelle dell’Eurostat.

Se questi fondi non ci sono, l’unico motivo è politico (oltre che nella natura stessa dell’Eurozona). Se i nostri governanti lo volessero, potrebbero essere utilizzati all’istante e se fossero garantiti dalla Bce non sarebbero un debito dello Stato, lei potrà convenire. Nessun livello di spesa pensionistica, nessuno spreco, nessuna evasione fiscale potrebbero impedire che quella ricchezza possa essere adoperata per ridurre le tasse o garantire investimenti pubblici.

Riguardo alla crisi russa del 1998, le devo ricordare, contrariamente a quanto da lei sostenuto, che il rublo venne agganciato in maniera “semi-fissa” al dollaro (la Banca Centrale garantiva margini di oscillazione) e la Russia fu “consigliata” di indebitarsi in valuta estera. Se l’euro è la nostra valuta straniera, capisce la portata di quel che avvenne e di quel che sta avvenendo in Europa. Qui due link, uno dei quali molto interessante relativo ai rapporti tra Russia di Eltsin e Argentina di Cavallo. Mentre per quanto riguarda l’Argentina la parità col dollaro fu fissata nel 1991, non nel 1998.

Penso che un punto fondamentale da affrontare sia l’errata idea che l’agganciamento all’euro ci ha portato ad una spesa allegra e inefficiente, idea da lei condivisa. I dati della spesa complessiva italiani sono infatti in linea con quelli europei (esistono decine e decine di studi) ma il nostro percorso,  nell’Eurozona è segnato dal 1992 dall’impegno di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil (nonostante questi rapporti non abbiano alcun significato logico). Per questo abbiamo accumulato in 22 anni circa 700 miliardi di avanzo primario (tasse superiori alla spesa pubblica), fino al 2007 270 miliardi invece di essere investiti nell’economia reale (il fasullo tesoretto della propaganda alla Giannino) per creare ricchezza e detassare sono stati destinati all’abbattimento del debito.

I risparmi e gli sforzi degli italiani non sono serviti a creare investimenti ma a garantire i detentori di ricchezza finanziaria o, ancor di più, i contabili di Bruxelles.

Potremmo continuare così per decenni, impoverendoci senza alcun motivo logico. Lo stiamo facendo ancora. La recessione è la prova di questa evidenza. Se sopravviveremo, le future generazioni ci chiederanno conto della distruzione in atto. Già oggi la nuova emigrazione è la prova di una sconfitta epocale.

Riguardo le pressioni inflattive in caso di rottura dell’euro, occorre vedere cosa accadde nel 1992 dopo l’uscita dallo Sme (anche se accompagnata da politiche di austerità: i poteri forti crearono il classico effetto shock): crollarono i tassi di interesse, addirittura l’inflazione scese. Sarebbe più corretto forse affermare, da veri liberali, che la nuova lira avrà il valore deciso dal mercato e non un valore fittizio deciso da accordi tra Stati, dato che in questi anni abbiamo accumulato rispetto alla Germania un differenziale di inflazione di quasi il 15%, agevolando l’acquisto di prodotti tedeschi rispetto ai nostri (la deflazione, piaccia o meno, è un meccanismo di aggiustamento nella situazione data).

Il modo migliore per evitare eccessi di inflazione è aumentare la produzione con taglio delle tasse e investimenti pubblici per decine e decine di miliardi. Il tutto da annunciare il giorno stesso la fine dei vincoli sulla nostra moneta.

Mi perdoni dottor Deaglio della mia lungaggine, ma lei è un giornalista che ha la possibilità di informare milioni di italiani e dunque è importante che riesca a far indossare ai cittadini che la leggono gli occhiali migliori per osservare quello che è accaduto, e per uscire da questo declino altrimenti inarrestabile. Nessuno accetterà ancora a lungo di vivere con un futuro sempre più fosco dinanzi a sé.