di Katiuscia Chiappini 

 

Con il suo sferragliare sulle rotaie, un treno ha cominciato da Roma il suo viaggio verso il mare.

In quel treno, terra di nessuno, ci sono due donne. Sedute nello scompartimento stanno leggendo, ma ogni tanto alzano lo sguardo dalle pagine, e dai finestrini osservano il paesaggio che scorre.

In una stazione di provincia un’altra donna le sta aspettando. Non le conosce, non le ha mai incontrate prima, però non è preoccupata. E’ calma. Non sa che è una calma ingannevole, come quella della nebbia.

Il treno si ferma a San Benedetto del Tronto. E’ un sonnecchiante venerdì pomeriggio di settembre. Le due donne scendono dal treno. Si chiamano Annalisa e Vittoria. Arrivano in una città bella, ma in declino. Anche culturale, sì, nel silenzio della “politica” che da quasi nove anni la governa.

Annalisa e Vittoria portano con loro un libro. Importante per il dibattito che apre sugli anni ’70, quelli in bianco e nero, quelli di piombo. Importante perché s’interroga. E dubita. Non ci sono ideologie tra le sue pagine. Niente teorie. Niente retorica. Un libro importante anche per indagare il domani, le impazienze, le qualità, le speranze di una generazione di “attori” di oggi affacciati sul “sistema”. Si spera con qualche consapevolezza in più. E che credano nella necessità di una rinascita culturale della pratica politica e dei suoi contenuti.

Annalisa e Vittoria parlano nella sala consiliare del Comune di questa città che ormai vive con la testa volta all’indietro: una bella città addormentata.

Nella sala consiliare di una bella città addormentata si pronunciano tre nomi in sequenza: Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Stefano Recchioni. Tre ragazzi del Fronte della Gioventù uccisi il 7 gennaio 1978 in via Acca Larentia, a Roma.

Nella sala consiliare di una bella città addormentata, Lucilio Santoni, uno dei relatori che tutto si può definire tranne che uomo di destra, dice nel suo essenziale ma incisivo intervento che le parole del romanzo non sono la “parte sbagliata” o la parte “dei vinti”, ma sono “comprensione” e “compassione”. Il suo sguardo, come quello di Pavese iscritto al Pci che raccontava con pietas i morti repubblichini, va oltre.

Nella sala consiliare di una bella città addormentata, un libro fa ricomparire ombre appartenute ad altri tempi.

Annalisa e Vittoria hanno negli occhi la presenza di quel passato e la contezza della cattiva memoria, della cattiva coscienza e della rimozione che ne hanno fatto gli italiani per cancellare i sensi di colpa. E invece “l’incidente”, come suol dirsi, non è per niente chiuso.

Annalisa e Vittoria raccontano quegli anni con qualità di intensa testimonianza e di pungente, scoperto realismo. Testimonianza amara. Ma leggera. A tratti ironica. La ricostruzione storica dell’epoca è di tutto rispetto, precisa e vivida. Come guardare una fotografia. L’aria del tempo c’è.

In Annalisa e in Vittoria passionalità e dialettica, emozioni strazianti e lucidità coincidono mirabilmente nello scontro tra il “dentro” privato e il “fuori” sconvolgente e sconvolto della Storia. Senza neutralizzarsi.

Annalisa e Vittoria portano con loro, la sera a cena, la magia di amicizie che nascono fra spiriti liberi.

Annalisa e Vittoria sono da 10 e lode.

Annalisa e Vittoria, in quella sala consiliare di una bella città addormentata, suscitano anche il ricordo di un padre missino. L’ingannevole calma getta la maschera.

Io, e quegli interminabili secondi di silenzio. Commossa, ma a ciglio asciutto.

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