di Katiuscia Chiappini

 

Appare nel deserto. In ginocchio, con i polsi legati e con indosso una tuta arancione, macabro contrappasso di Guantanamo.

Si chiama James Foley, è un giornalista statunitense di quaranta anni, nato a Boston, rapito in Siria alla fine del 2012.

E’ su un patibolo di sabbia, in una terra straniera, con la morte davanti agli occhi.
Solo pochi minuti ancora.
Dietro, alle sue spalle, vestito di nero e con il volto coperto, il macellaio che lo sta per sgozzare e che l’Occidente ha appena finito di addestrare e finanziare.

Sarebbe inglese il tagliatore della testa esibita sulla schiena della vittima alla fine del terrificante e maniacale rituale. Un inglese, sì. Un suddito di Sua Maestà. Intelligente, rivelano fonti attendibili, istruito. Ora seguace devoto degli insegnamenti dell’Islam radicale, aggregatosi agli jihadisti in Siria e Iraq. Una serpe cresciuta nel seno delle nostre democrazie.

Per quelli che “il video non è autentico”, per i complottisti impegnati tra scie chimiche ed Elvis Presley vivo e vegeto che ha ingannato il mondo, ok: aspettiamo con fede e fiducia la resurrezione del reporter.

Il fatto che l’Isis abbia i mezzi per fare video di migliore qualità, o il fatto che dall’atteggiamento di Foley sembra che quello che sta per accadergli riguardi un’altra persona e non lui, non cambia il fatto che l’abbiano ammazzato.

Due ex prigionieri tenuti in ostaggio assieme al reporter hanno raccontato che Foley, nonostante le torture fisiche e psicologiche (era regolarmente vittima di finte esecuzioni e una volta “fu crocifisso a una parete”), è sempre rimasto “imperturbabile”.

Perché aveva capito una cosa fondamentale: mostrare la paura è la paga migliore che questi barbari possano ottenere: esaltazione, consacrazione, autoincensamento e rassicurazione sul proprio feroce credo.

Jim sapeva che era finita, che stava per morire. Era terrorizzato, eccome. Ma ha accettato una sorte tragica con coraggio, ha guardato in faccia alla morte con dignità (la dignità è una parola che non ha plurale, diceva Paul Claudel), ha disperatamente cercato di dominare se stesso per non regalare anche quella soddisfazione ai suoi carnefici.

Deve essere stato atroce mandare giù il calice amaro da cui tutti prima o poi devono bere, ma è morto da uomo. Non da prigioniero.

E mi domando se il boia col cappuccio avrà lo stesso coraggio e sarà altrettanto dignitoso nel momento in cui dovrà prendere il suo, di sorso.