Non è che si voglia rovinare la festa a quelle signore che, tutte cotonate e arrampicate sui tacchi alti, una sola sera l’anno, l’8 marzo, si comportano come se tutto fosse permesso, forzando la propria stessa natura nel compiere azioni solitamente a loro estranee.

Non si tratta di semplice goliardia, ma di quella goliardia che diventa maschera indossata dal cattivo gusto.

A guardarle non le diresti neppure donne, come se un sortilegio diabolico le avesse trasformate improvvisamente in gang di baccanti che partecipano a una specie di sabba durante il quale le suddette, altrimenti cortesi e simpatiche, festeggiano in modo scomposto e indegno del gentil sesso, affollano locali stracolmi, si dimenano, starnazzano, cedono alla prassi d’infilare nella biancheria intima di procaci ragazzotti, (spogliarellisti unti), i cinque euro di rito.

Le stesse che magari, di fronte alla farfallina di Belen hanno dichiarato uno scandalizzato disgusto, oppure hanno plaudito a una marciante indignazione pubblica per il “bunga bunga”. “Se non ora, quando?” “E’ l’otto marzo, degradiamoci da sole”.

Succede così: aspettano trecentosessantaquattro giorni per immaginare d’immergersi nei desideri del buio proibito e protetto del trecentosessantacinquesimo, quel buio proibito e protetto che ai maschietti è concesso spalmare su ogni sera disponibile. Con la differenza che spesso si ritrovano a parlare di figli, spesa, lavoro, parrucchiere, insomma a danzare al ritmo consueto della loro routine.

Ce la possiamo raccontare però, si può superare l’allergia all’odore francamente insopportabile e penetrante della mimosa che lascia polvere ovunque e a questo tipo di feste e festicciole, manna dei bottegai. Si può fare, sì.

E’ possibile sostenere che il dedicare una giornata (non una festa, una giornata) alle donne sia cosa nobile per non dimenticare né il significato originario, né gli avvenimenti drammatici che determinarono l’inizio di questa ricorrenza, né il tentativo d’approfittare dell’occasione annuale per un’approfondita discussione (possibilmente priva di retorica) sulle conquiste sociali, politiche ed economiche o per denunciare le discriminazioni e le violenze, di cui ancora oggi, alcune donne, sono oggetto.

Messa in questi termini, l’opportunità servirebbe a puntare il dito contro quel che ancora non va. A patto di comprendere che puntare il dito è diverso dal fare le oche e alzare il gomito.

E allora viene da chiedersi: ma l’8 marzo, l’8 così com’è oggi, serve? Non serve? Chi è interessato a capire? Chi lo vuol sapere? E’utile? Inutile? Le donne sono realmente solidali tra loro? Hanno rispetto per loro stesse, per la propria femminilità? Rientrano tutte, ma proprio tutte nella categoria di quelle che comprendono il significato dell’emancipazione e della dignità femminile? E’ utile alle donne che un giorno l’anno il mondo si rovesci e si possa fare di tutto, scimmiottando gli uomini e dando il peggio di sé trasformandosi in ridicole “ladies night”?

O sarà, forse, che certi comportamenti non onorano loro stesse e tutte quelle che, in ogni epoca e in ogni continente, hanno vissuto e vivono come un peso l’essere donna pagandolo in condizioni indicibili?

Non è che si voglia stare qui a rovinare la festa a quelle donne che celebrano la “normalità della diversità” confondendo il baccanale con la giornata internazionale, o la rivendicazione di diritti con il polline giallo che ne è diventato il simbolo più appropriato.

Perché la mimosa sfiorisce e secca in un giorno, proprio come l’8 marzo, sempre uguale a se stesso, rincorrendo qualche “idea” per farsi notare nel bailamme delle manifestazioni così simili a sagre demagogiche che inondano le ventiquattro ore di eventi, incontri, dichiarazioni di chi oggi darà la migliore rappresentazione del proprio impegno e del proprio essere per “le condizioni di genere”. Oggi, perché domani è un altro giorno.

E invece, il sogno di un’effettiva parità ha bisogno di conoscenza e d’impegno reali, non di aridi terreni festaioli e di danze gonfie d’ebbrezza. E neppure della mimosa, fiore diffuso ma effimero e fragile che svanisce presto portando via con sé anche il suo alto valore evocativo.