La FIAT (ora FCA) è solo il caso più eclatante dei disastri prodotti dalle politiche industriali di una classe che politica che ha sempre cercato di proteggere alcune “aziende di interesse nazionale” dal mercato secondo un non meglio precisato modello di welfare, che nel breve periodo è riuscito a placare gli umori e permettere le aziende di far quadrare i conti e chiudere i bilanci ma nel lungo periodo si sta dimostrando un suicidio.

Spesso nei Parchi e nelle Riserve naturali si leggono dei cartelli che vietano ai visitatori di dar da mangiare agli animali selvatici, perché se si abituano a prendere il cibo dai visitatori perdono l’abitudine a procacciarsi il cibo e quando i visitatori non ci sono muoiono di fame.

Allo stesso modo lo Stato Italiano, con la scusa di un meglio precisato modello di Welfare di State, ha fornito sussidi, sovvenzioni ed aiuti di Stato che hanno fatto perdere l’abitudine a confrontarsi con il mercato rendendo le imprese sempre meno competitive, sempre meno attente al successo dei loro prodotti (che sia per innovazione, leadership di costo o per il design) ma sempre molto organizzate nell’instaurare relazioni con i governi di turno. In questo modo le aziende non hanno mai affrontato il problema della perdita di quote di mercato, perché tanto lo Stato in qualche modo avrebbe riappianato quella perdita una volta con investimenti agevolati nel Sud Italia, una volta gli eco-incentivi per la rottamazione, una volta con le quote di importazione o perfino con gli sconti su asset dello Stato (Alfa Romeo).

Quando per vari motivi la mano dello Stato è venuta meno, e il management delle azienda inizia a pensare in ottica globale i motivi per rimanere in Italia vengono meno. Perché tutti gli incentivi dati non venivano dal nulla, ma in qualche modo si dovevano finanziare (con il cuneo fiscale) e questo è un grosso onere per le imprese che vedono le loro performance finanziare danneggiate dalla voracità di un fisco aggressivo e sempre più avido di risorse per tenere in piedi il grosso carrozzone dello Stato e del Debito Pubblico Italiano.

Per via di queste politiche di brevissimo periodo (spesso di portata anche minore dei periodi elettorali) è sempre stato preferito mangiare l’uovo oggi anziché buttare l’occhio a cosa si poteva mangiare domani; in definitiva ci siamo mangiati tutte le uova e non ci sono rimaste più galline ne da mangiare, ne per fare nuovi uova.

Lo Stato Italiano avrebbe dovuto garantire delle Politiche Industriali ben più sostenibili nel lungo periodo, lasciando da parte il ruolo attivo di smorzatore degli effetti di mercato (con aiuti, sussidi, cassintegrazioni) ma rendendosi un facilitatore dell’attività imprenditoriale, abbattendo l’ingiustificata burocrazia che limita la produttività aziendale, semplificando e riducendo il cuneo fiscale e le aliquote (magari anche attraverso l’eliminazione delle tax expenditure, che non sono altro che forme velate di incentivi), garantendo le migliori infrastrutture possibili e il miglior costo delle facility ma lasciando alle aziende la possibilità di competere in maniera agile e reattiva sul mercato, anziché imprigionarle in uno Stato che fa da socio di maggioranza di ogni attività economica senza fornire l’apporto di capitali o di servizi che gli competerebbero.

Perché la più tutelante forma di welfare è avere un sistema industriale competitivo sui mercati internazionali e questo non può prescindere da una rivisitazione del ruolo dello Stato nelle politiche industriali.

Ma forse è proprio perché in Italia, il dibattito sulle politiche industriali è ridotto ai minimi termini e ce ne ricordiamo solo quando escono notizie di aziende che minacciano di chiudere per andare in paesi che offrono migliori condizioni, ed attenzione non solo paesi emergenti delle Far East o dell’Est Europa ma spesso sono anche paesi molto vicini a noi come l’Austria o la Svizzera.

Per cui non c’è da meravigliarsi se le imprese decidono di spostarsi come nel caso FIAT/FCA o se decidono di chiudere i loro impianti come nel caso della Electrolux per via dell’elevato costo del lavoro (che rimane tra i più cari d’Europa seppur al netto risulti essere tra i più bassi d’Europa proprio per via del cuneo fiscale) perché in un mercato libero le imprese si muovono dove riescono a trovare le migliori opportunità. Il problema è che in Italia le opportunità languono…