Dal settimanale di Riviera Oggi numero 942 del 3 dicembre 2012

MARTINSICURO -Curse, all’anagrafe Piergiorgio Natali, classe ‘87, è un ragazzo di Martinsicuro che dal 2008 fa musica insieme a Dj Sin (Paolo Scarpantoni), giovane produttore classe ’91. I due fanno parte della crew teramana Ritmi Urbani e sono considerati tra i maggiori esponenti del rap abruzzese. Al momento sono fuori con il loro secondo disco insieme, Rollercoaster, scaricabile gratuitamente da internet. Nel corso della loro carriera hanno collaborato con artisti di livello nazionale, quali ad esempio Raige, Rayden, Jack the Smoker ed ElDoMino.

Domanda di rito, raccontaci come è nato il duo Curse & Dj Sin.
“Questo duo è nato in maniera abbastanza spontanea. Io rappavo già da qualche anno quando Sin ha iniziato a produrre e, per fargli fare pratica, gli passai la traccia voce di una mia vecchia canzone, per fargli fare il remix. Non aveva fatto roba decente fino a quel momento, gli dicevo di continuare per incoraggiarlo, ma in realtà nulla di che. Poi, però, quando mi tornò indietro il suo remix completo, mi resi conto che avevo per le mani un pezzo forse più figo dell’originale e le sue produzioni successive mi piacquero moltissimo. Gli era scattato in testa quel non so che. Da lì gli ho proposto di fare un disco insieme ed è venuto fuori Rumble. A quel punto non abbiamo mai detto che facciamo coppia fissa, ci siamo semplicemente messi a lavorare insieme e a suonare live in maniera spontanea, tanto che non so tuttora se possiamo definirci un gruppo o meno. Credo che le cose che nascono spontanee siano le migliori, perché premiano la naturalità dello svolgersi degli eventi e della convergenza di interessi e passioni”.

Siete già al secondo lavoro insieme, parliamo di Rollercoaster. Cosa vuol dire fare rap in Italia e soprattutto in Provincia?
“Fare rap in generale – prima che in Italia e in provincia – per me è prima di tutto un onore e una grossa responsabilità, perché ti fai portavoce di una cultura, quella hip-hop appunto, che non si limita ad un genere musicale, ma ha un significato storico e sociale dal quale non si può prescindere. Da qui la difficoltà di inventare qualcosa di nuovo e originale, senza però stravolgere il significato di quello che facciamo, ma solo rinnovandolo. Ovviamente, in Italia il rap non si sviluppa per le stesse necessità e con le stesse modalità degli Usa, quindi fare il rap all’americana in Italia non ha senso. Il rap italiano è differente da quello americano, da quello francese, da quello tedesco, perché, essendo appunto un genere che va di pari passo con un fenomeno sociale, deve svilupparsi insieme al background che trova di posto in posto. I gangster non li abbiamo in Italia, ad esempio, quindi un rapper che si atteggia a tale fa semplicemente ridere. Il problema del rap in Italia è che tutti vogliono farlo dice Raige in un noto pezzo e questo rende appieno le difficoltà che ha un gruppo di provincia di emergere. L’Italia è piena di rapper e, anche se ce ne sono tantissimi scarsi, ce ne sono tanti altri più o meno bravi. Per emergere quindi è necessario per forza dare un motivo agli italiani di ascoltare te e non quel rapper che è bravo quanto te. Bisogna essere originali e, purtroppo, bisogna avere conoscenze. Puoi essere il migliore, ma se quelli che stanno in alto non dicono al pubblico che lo sei, il pubblico non lo capisce da solo. Da qui l’ulteriore difficoltà dello stare in provincia, dove non c’è comunque la quantità di pubblico che si ha nelle grandi città. Ma comunque ci arrangiamo, per essere un gruppo di provincia giriamo abbastanza l’Italia e siamo stati un po’ ovunque a suonare”.

Qualcuno ti ha definito “il b-boy che vuole fare lo sbirro”. Come sta cambiando il movimento hip-hop italiano? La old school ormai è il passato?
“La old school è il passato, sì, ma nel senso che è la base, le fondamenta, da cui partire. Non da stravolgere, ma da rinnovare. Alla old school dobbiamo tutto, senza i loro sacrifici in un mondo che non conosceva e schivava il rap, oggi non saremmo qui e dalla old school ci sono tante buone cose da prendere. D’altra parte, con uno sguardo critico al passato, ci sono anche tanti errori dei pionieri dai quali possiamo imparare, sfruttando la loro storia per non ripetere gli stessi passi falsi o per fare meglio qualcosa. L’old school è come l’impero romano: è passato, ma ha conquistato il mondo e noi ora viviamo di rendita, sperando di non far cadere tutto in un nuovo medioevo.
Riguardo a il b-boy che vuole fare lo sbirro, sembra che per fare il rapper non serva avere qualcosa da dire, ma essere ignorante e senza lavoro. Io studio legge, come hanno studiato legge tanti rapper italiani tra cui Ghemon e Rayden, per citarne un paio. Se poi questo significa essere sbirri, spiegatemi come, allora sono colpevole. Comunque, facendo una considerazione generale, il b-boy medio non odia la polizia per qualche motivo personale, ma perché gli è stato detto che così deve essere, come se l’unico compito delle forze dell’ordine fosse quello di rompere le scatole a chi fuma. Anche qui ci vuole spirito critico e capire che per esempio gli abusi sono fatti dai poliziotti, non dalla polizia, e non fare di tutta l’erba un fascio. Non so se ho reso l’idea”.

Chi sono i tuoi idoli?
“A livello internazionale impazzisco per Eminem, Method Man e Jay-Z, per non parlare del francese Soprano, che per me è il migliore. Tuttavia non ascolto molto rap straniero, esclusi i citati, perché per me la musica è un messaggio e non adoro stare ad ascoltare con il testo sotto mano e il rischio di non afferrare qualcosa, un pezzo deve trasportarmi in tutta tranquillità. Stare concentrato a tradurre il testo non mi permette di vivere un disco appieno. Quindi preferisco di gran lunga il rap nostrano. Qui su tutti innalzo Neffa, seguito da una marea di altri artisti vecchi e nuovi, tra cui Kaos, Colle der Fomento, One Mic, Mistaman, Ghemon, Two Fingerz, Salmo, Maxi-B, Stokka & Mad Buddy e tantissimi altri. Di idoli ne ho parecchi, insomma…”

I vostri sogni nel cassetto?
“Non ci sono sogni, soltanto obiettivi. Non sono un gran sognatore, o meglio ho smesso di esserlo, quindi procedo nella vita step by step. So per certo che la musica è un bel mondo, ma che non potrà quasi sicuramente darmi da mangiare. Quindi alla fine cosa voglio? Sinceramente non lo so. Laurearmi intanto, poi una famiglia, poi boh”.

Parlaci di come nascono i tuoi testi e se vi sentite, attraverso i vostri brani, portatori di un messaggio.
Senza messaggio non ha senso fare musica, secondo me. Poi che messaggio debba essere è soggettivo, ognuno parla e trasmette quello che vuole, sono gusti di chi crea musica e di chi la ascolta. Con messaggio, poi, non intendo per forza un contenuto logico, ma anche emozioni. La musica deve trasmettere qualcosa, assolutamente, e se non si ha qualcosa da trasmettere non si dovrebbe fare musica. In ogni mia canzone ho sempre qualcosa da dire, altrimenti non scrivo, e Paolo deve emozionarsi da solo con la musica che produce, altrimenti non tira fuori il beat. I miei testi nascono spontaneamente. Posso stare un mese senza scrivere nulla e fare mezzo disco in due giorni, dipende da cosa ho dentro. Se ho voglia di spaccare il mondo scrivo molto, se non sto bene non riesco a concludere nulla. Che l’arte nasce dal malessere è vero, ma credo che sia più un raccontarlo una volta che si rimarginano le ferite piuttosto che uno scrivere mentre si sanguina”.

Progetti per il futuro?
“Per quanto riguarda progetti successivi, non ne abbiamo idea, magari domattina ci svegliamo e ci mettiamo a scrivere il prossimo disco insieme, chissà…”

Oltre a fare musica sei un organizzatore di eventi hip hop. Parlaci di questa tua doppia funzione.
“Sebbene l’hip-hop oggi sia arrivato sulla bocca di tutti, il pubblico dei rapper rimane composto per la maggior parte da altri rapper ed è un mondo in cui sono i rapper a organizzare serate in cui far suonare altri rapper per il divertimento di altri rapper ancora. Scusa il gioco di parole, ma il concetto è questo. Io ho iniziato a organizzare eventi nel 2007 per necessità, perché altrimenti difficilmente grossi artisti riuscivano ad arrivare in zona. Chiamavamo artisti, contattandoli direttamente su MySpace, e vedere che questi rispondevano e poi effettivamente venivano era una figata, perché i tuoi idoli erano lì a portata di mano, a un passo, ti chiamavano per telefono per sapere se c’erano novità. E poi, ammettiamolo, organizzare serate serviva anche a noi per allacciare rapporti con altri rapper della zona e per suonare noi stessi, dato che gli sbocchi erano pochi. Da lì molte cose sono cambiate, ora non siamo più soli ad organizzare eventi e siamo anche passati in un ruolo di secondo piano, lasciando fare il grosso delle serate ad altri, per poterci concentrare su quello che dobbiamo davvero fare: il rap. Si è creato un bel giro di eventi tra Abruzzo e Marche e abbiamo stretto rapporti con tutte le realtà e le crew nel raggio di centinaia di chilometri. Diciamo che, se oggi ci sono tutti questi live nella provincia di Teramo e di Ascoli, un po’, ma solo in parte, è anche merito mio”.