SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Lo scrittore francese Voltaire, tra i padri fondatori del movimento culturale dell’illuminismo, certificava l’indipendenza come la vera e quintessenziale caratteristica della libertà. Corrado Nuccini, padre fondatore del gruppo post-rock Giardini Di Mirò, sottoscrive al celebre letterato parigino.

E’ proprio in questo vocabolo, “indipendente”, che oggigiorno va di moda trasmutare nella più anglosassone etichetta “indie music”, sembra si celi la costante e perpetuata valenza qualitativa sonora di questo italianissimo gruppo di origine emiliana.

Un’alchimia sonora, quella dei Giardino Di Mirò, che ha portato la band a farsi accostare a colossi del calibro di Mogwai e Godspeed! You Black Emperor, rappresentanti uno dei sottogeneri del rock considerato tra i più sperimentali e innovativi: il post-rock. Un sottogenere affascinante che rifiuta la conformità al rock tradizionale, procacciando dimensioni sonore alternative pescate dall’avantguarde, in un’elaborata mescolanza che ammicca a reminiscenze in background atmosferici richiamanti ambient, jazz o elettronica.

In occasione dell’inaugurazione  dell’ormai celeberrimo festival estivo ad opera della Pietraia Dei Poeti (maggiori informazioni qui), i Giardini Di Mirò fanno visita alla Riviera Delle Palme con sulle spalle un successo underground consistente e meritato, a seguito di 14 anni d’attività e ben 11 pubblicazioni, la cui ultima dal titolo “Good Luck” di recentissima uscita.

Nella sfavillante e magica atmosfera del museo fondato dallo scultore Marcello Sgattoni, i cinque giovani musicisti parlano amichevolmente con tutti, si fermano ad ammirare le opere che contestualizzano la “galleria d’arte all’aperto” della Pietraia e non appaiono affatto innervositi da un’aspirante giornalista che gironzolandogli addosso con aria falsamente e goffamente disinteressata cerca di portarsi a casa un’intervista con qualche membro del gruppo. A rispondere subito all’appello è Corrado Nuccini, fondatore e leader carismatico della band.

Come mai la scelta di cantare in inglese?

Quando siamo partiti col nostro progetto musicale l’idea di fondo era quella di emanciparci dalla nostra provincia, per realizzare la nostra dimensione fuori da quel contesto. Ci hanno ispirato dischi americani e inglesi degli anni ‘80 e ‘90, la scelta è dovuta anche a ciò. In un epoca dove le tecnologie uniscono le zone del mondo, credo ci voglia più un motivo a fare le cose in italiano che a farne in inglese. Nelle nostre terre, a Carpi, parte l’autostrade del Brennero. In sette ore sei a Berlino. Questo è un parallelismo con l’internazionalità che la nostra band rappresenta. Ci siamo sempre sentiti parte di una partita europea, e cantare in inglese aiuta tantissimo. La nostra idea è quella di portare fuori la nostra musica, abbiamo suonato in Germania, Svizzera, Belgio, Grecia, Danimarca e altri paesi che ci hanno accolto perché il nostro background è appunto più internazionale rispetto ad altre band italiane che invece hanno preferito focalizzare il loro lavoro nella penisola, ovviamente questa è una scelta di stile che non è né giusta né sbagliata.

Cosa comporta essere un artista indie in Italia, e se ci fossero prospettive di un contratto con una major accettereste?

Per noi essere Indie è sempre stata una costituzione per voler fare le cose alla nostra maniera. Non c’è appeal col sistema dello show business delle radio o delle tv mainstream. Suoniamo da circa 14 anni, questo ci ha portato a vedere tante realtà e situazioni, al contrario di altre band che si sono sciolte credo che siamo ancora qui perché abbiamo mantenuto il nostro percorso fregandocene del resto. Ciò rappresenta a mio avviso una buona dimensione per un gruppo indipendente. Se dovessero offrirci un contratto major? Veniamo da una terra molto laica, siamo abituati a pensare che non esistono scelte a priori o dogmi da rispettare, il sistema major italiano è di basso livello e non credo che una trasposizione del genere ci interesserebbe. Invece major in panorama internazionale potrebbero offrire migliori possibilità

In 14 anni d’attività, qual è l’episodio che più ti è rimasto dentro e perché?

Girando il mondo di episodi ce ne sono tanti, credo che un momento veramente importante è stato nel 2001-2002 nel nostro primo tour all’estero e di preciso in Germania, a Berlino. Fu la nostra prima data fuori dall’Italia e rappresentò per noi il vero inizio di quel percorso volta all’emancipazione dalla nostra provincia nativa.

In un vostro brano citate l”Otello” di Shakespeare. In che modo la letteratura influisce la musica?

Io sono laureato in lettere, penso che la letteratura sia una delle forme più alti rappresentanti l’intelletto applicato dell’uomo, con caratteristiche poetiche ed evocative. Una canzone è un qualcosa che viaggia a metà, il cui scopo è principalmente quello di intrattenere. Noi lo abbiamo fatto a volte con risultati alti a volte no, sta di fatto che comunque il rapporto tra letteratura e musica esiste, è imprescindibile.

Secondo te di chi è la canzone perfetta e perché?

Quando ti fanno una domanda del genere solitamente capita che scappano fuori i Beatles, dato che hanno codificato l’idea di canzone pop perfetta. La mia canzone perfetta è più rappresentata da quel connubio tra Lou Reed e David Bowie sfociato con l’album “Transformer”. L’identifico in “Perfect Day”, brano che unisce liriche toccanti a musiche contemporanee con un mood malinconico ma di ambivalente interpretazione.

I pro e i contro di questo mestiere?

Per quello che concerne i pro direi girare il mondo e vedere realtà che ci sarebbero precluse se non avessimo fatto questa attività. I contro si basano sulla difficoltà generale che gravita intorno al lavoro di artista. Bisogna avere molta tenacia, determinazione, non abbattersi e cercare di tenere sempre ben preciso il tuo obiettivo.

Il tuo rapporto con San Benedetto Del Tronto?

E’ legato ai racconti di Emidio Clementi. Ho iniziato a conoscere queste zone con quello che diceva nelle sue canzoni in cui citava questa parte di adriatico.