di seguito vi proponiamo un articolo uscito in due puntate nella primavera 2009 sul nostro settimanale Riviera Oggi, in cui vi raccontiamo la storia di Osvaldo Capocasa, cuprense, classe 1920. Cliccando qui potrete accedere alla prima puntata di questo racconto e al servizio video realizzato dalla nostra testata

CUPRA MARITTIMA – Al crepuscolo del 30 marzo 1942, il piroscafo Bosforo salpa dal porto libico di Bengasi, dopo aver ancora rifornito la stremata armata italiana in Africa Settentrionale. Scortato dal cacciatorpediniere Strale, l’ex nave commerciale requisita dalla Marina per il conflitto riportava in Italia materiale residuato di guerra. Durante la notte del 31 marzo Osvaldo Capocasa e alcuni suoi commilitoni marinai sono di guardia alle mitraglie antiaeree, parlando del ritorno in patria e della licenza imminente: «Proprio mentre parlavamo, improvvisamente un boato violentissimo scosse la nave, e contemporaneamente all’urto ci investì un’altissima colonna d’acqua. Le sirene di bordo confermarono che era successo qualcosa di grave, e noi lo capivamo perché subito dopo l’esplosione il Bosforo sbandava sempre di più. Dopo – racconta oggi il lucidissimo Capocasa, classe 1920 – scoprimmo che era stato un sommergibile inglese a silurarci, il Proteus. Fu un momento drammatico: chi preso dal panico si gettò subito in acqua, molti erano presi dal terrore e urlavano. Era difficile soprattutto orientarsi perché il piroscafo era invaso dal fumo ovunque, si sentivano solo le grida e i tonfi dei marinai che trovavano la fuga in acqua. Cercavo di trovare la posizione e il momento migliore per buttarmi, che arrivò quando vidi galleggiare una tavola poco distante. C’era una grande quantità di nafta in mare, e alcuni dei miei compagni sparsi tutti intorno che cercavano aiuto. Mi tolsi di mezzo gli indumenti che potevano appesantirmi e con molti sforzi raggiunsi uno zatterino di salvataggio dove c’era il cuoco di bordo che ci supplicò di non salire sulla zattera perché era strapiena. Allora io e altri ci appoggiammo intorno alla scialuppa in attesa, spasmodica e disperata, di essere tratti in salvo dallo Strale, il cacciatorpediniere che monitorava l’area in cerca di superstiti».
«Il cuoco offriva a noi naufraghi sorsi di cognac, per tirarci su. Finalmente arrivò lo Strale, da cui ci lanciarono delle scale di corda. Stremato, ritrovai i miei compagni dispersi. Poi ritornammo a Brindisi, all’ospedale militare».
Osvaldo ricorda con dovizia di particolari tutto ciò che accadde, gli uomini, i nomi, i volti, con una precisione inesprimibile. E rammenta anche l’onestà dei marinai e degli ufficiali dello Strale, che gli restituirono oggetti personali, soldi, fotografie. Ma la guerra per lui non era ancora finita. Richiamato a Venezia successivamente al naufragio Osvaldo, facente parte della fanteria di marina del Battaglione San Marco, viene inviato a Bordeaux, nella base atlantica di sommergibili, che nella storia della Regia Marina è indicata come Betasom. Qui lui e i suoi commilitoni costituivano il personale di guardia del porto militare. Da Bordeaux i sommergibili italiani e gli U-Boot della Kriegsmarine partivano per missioni con l’obiettivo di bloccare i rifornimenti continui di mezzi e materiali dagli Stati Uniti verso la Gran Bretagna e per ostacolare il dominio sempre più pressante degli alleati nell’Atlantico.

Osvaldo ricorda l’atmosfera di grande armonia che regnava a Bordeaux (le stesse fonti della Marina Militare confermano l’atmosfera assolutamente pacifica e cordiale che si era venuta a creare), le fanfare che accompagnavano la partenza dei sommergibili, l’alone leggendario che circondava alcuni comandanti come il pluridecorato Gianfranco Gazzana, le visite dell’ammiraglio tedesco Doenitz. Ma ricorda anche quei sommergibili che non tornarono più, come l’Archimede e il Da Vinci, affondati e inghiottiti dagli abissi. Nei giorni immediatamente dopo l’8 settembre 1943, il comandante Grossi radunò tutti gli uomini lasciando loro la scelta sul da farsi: se restare al porto e continuare ciò che avevano fatto al fianco dei tedeschi oppure rifiutare. Chi rifiutava sarebbe stato preso prigioniero e deportato in Germania.
Osvaldo ci racconta di come il battaglione si divise a metà. Lui come molti altri rimase ma dopo l’8 settembre notò che i tedeschi erano diventati diffidenti. Infatti trasferirono tutto il personale italiano, impiegato in opere di fortificazione, sull’isola D’Oleron, a poche miglia dal porto di La Rochelle. «In questa isoletta avevamo rapporti cordiali e amichevoli con la popolazione, stavamo molto bene, non sembrava ci fosse la guerra. Ma dopo lo sbarco degli Alleati in Normandia, nell’estate 44, ci arrendemmo alle truppe francesi golliste. E quella fu l’unica volta in cui ebbi paura per la mia vita, poiché subimmo un trattamento molto violento e disumano, talmente esagerato che la gente del posto, con cui avevamo fatto amicizia, ci difese e protestò contro i loro stessi soldati. Ma il giorno della resa fu terribile, soltanto in quel giorno ebbi terrore di perdere la vita e di non poter più far ritorno a casa, e non durante l’attacco aereo inglese o durante il naufragio».
La prigionia di Osvaldo e degli altri marinai continuò per molti mesi nei campi di Cosez, Poitiers, Toulouse: un periodo molto duro in cui la fame, le privazioni, gli stenti e le angherie furono onnipresenti. Anche se non mancarono gesti di umanità e misericordia da parte dei civili francesi e da alcuni soldati delle truppe coloniali che presero le difese degli italiani. A Tolosa l’incubo ebbe fine: alcuni prigionieri italiani vennero destinati ad alcune famiglie francesi che li avrebbero utilizzati nel lavoro delle fattorie. Consuetudine diffusa questa: molti prigionieri italiani lavorarono nei campi della Francia, dell’Inghilterra, del Sud Africa e della Scozia. Osvaldo capitò in una famiglia ospitale, che lo accolse con grande umanità, come un figlio. Fu un periodo scandito dai ritmi della vita contadina, che terminò dopo alcuni mesi con il ritorno in Italia e a Cupra.
La storia irripetibile di Osvaldo raccoglie i ricordi più avvincenti, drammatici e umani dell’ultimo conflitto mondiale. Una storia che le parole delle carta stampata non riusciranno mai ad esprimere in tutte le sue sfumature e nelle descrizioni così perfette che ci ha fatto quest’uomo straordinario. E questo non lo riconosciamo soltanto noi. Non a caso la vicenda di Osvaldo Capocasa è stata riportata dall’autorevole Giulio Bedeschi nella lunga serie di volumi “C’ero anch’io”, edita da Mursia, in cui l’autore raccoglie le esperienze dei combattenti italiani su tutti i fronti. Anche il giornale della Marina Militare, “L’Ancora” , si è occupato della sua storia. Inoltre la storia integrale è presente in modo molto dettagliato nel volume di Luciano Bruni, “Cupra Marittima e i suoi abitanti durante la Seconda mondiale”.