SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Auditorium tutto esaurito, maxi schermo all’ingresso dell’auditorium Tebaldini e diretta anche dalla sala giunta del comune di San Benedetto. E pensare che – per fortuna – non c’è l’ultima velina di turno, un personaggio del Grande Fratello, o un tronista caduto prematuramente dal trono, ma Philippe Daverio, venuto all’Auditorium Tebaldini venerdì scorso per un appuntamento della Biennale Internazionale del Design: un signore dal cantilenante accento francofono, conosciuto per lo più da una nicchia di appassionati di arte, di cultura, e perché no, di poesia.
La stessa poesia che Philippe Daverio dice di non amare, troppo sentimentale e poco passionale, a dirla in breve. Ma il critico, perennemente in papillon e panciotto nelle sue uscite pubbliche, sa bene come infiammare la platea, neanche fosse un oratore del passato.

Tocca tasti legati sì al design, ma trasversali: dall’élite milanese che nel secondo dopoguerra fa rinascere il mondo economico legato alla progettazione industriale passa velocemente a immaginare una classe politica e dirigenziale che possa farci sognare, e catapultarci, in virtù delle buone pratiche che l’Italia potrebbe intraprendere, a diventare il centro del mondo. Perché se è vero che noi abbiamo il dominio nel campo delle 4F (che secondo Daverio corrispondono a food, fashion, furniture, Ferrari) potremmo tornare a primeggiare ritagliandoci nicchie di un mercato globale, in cui attualmente contiamo ben poco, se solo riuscissimo a dare vita ad un progetto complessivo che ripensa il nostro vivere.

Si lamenta della qualità dell’architettura italiana, (come dargli torto), critica il Maxxi di Zaha Hadid, definendolo un negozio per parrucchieri, racconta il suo viaggio da Firenze a San Benedetto del Tronto passando per l’Umbria  («gli umbri si sono venduti pezzi di storia in cambio di pezzi di conto correnti»), di come siamo di fronte ad una rottura linguistica totale («noi siamo sempre stati portatori di una linguaggio, abbiamo sempre controllato una lingua, e adesso le città sembrano Tel Aviv: tutto questo a favore di una architettura ‘fluida’ che distribuisce edifici in maniera per lo più spontanea»). «Bisogna fare la rivoluzione», afferma.

Lascia il pubblico con la promessa di tornare, tra qualche mese, per continuare la chiacchierata. Se servisse per far nascere qualche buona idea, e per mettere ordine nella testa di coloro che progettano la città, Philippe Daverio sarà il benvenuto.