dal settimanale Riviera Oggi numero 798
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Umberto Travaglini, nato a San Benedetto il 22 dicembre 1935. Sposato prima con Marisa Massimi, tifosissima della Samb che lo seguiva in ogni partita. Poi, dopo la dolorosa scomparsa, con Adriana Tosti. Da circa 48 anni dirige la “Trasporti Travaglini”, una azienda da lui stessa creata e portata su, anno dopo anno. Entra a far parte della dirigenza della Samb negli anni ’70 nel cambio di presidenza tra Di Lorenzo e Guidi Massi quando la squadra militava ancora in serie C. Resterà alla Samb come uno dei dirigenti più impegnati e appassionati fino alla sfortunata era Venturato.
A Umberto Travaglini è stato consegnato lo scorso 4 novembre il Gran Pavese Rossoblu a riconoscimento del suo impegno sportivo rivolto in particolare alla Samb. Questa la motivazione della benemerenza: “Per la dedizione al lavoro e l’impegno a lungo dedicato alla Sambenedettese calcio”.
Quando iniziò “seriamente” ad entrare in gioco nella Samb?
«Prima ebbi un incarico fiduciario di rapporto con le banche quando era presidente Caioni, poi diventai vicepresidente con l’avvento di Ferruccio Zoboletti».
Tutta l’economia della squadra si reggeva praticamente sul credito bancario?
«Sì, credito bancario a firme nostre. Creammo una scaletta con consiglieri, consiglieri di giunta, vice presidente e presidente. Erano cifre importanti».
Nella sua partecipazione alla guida della Samb con quanti presidenti ha avuto a che fare?
«Di Lorenzo, Guidi, D’Isidori, Caioni, e Ferruccio Zoboletti. Al riguardo ricordo che mi nominò vice presidente mentre ero assente. Ma accettai senza fiatare. A quel tempo c’era un rapporto di reciproca stima»
Ora come vede il mondo del calcio?
«Ora è diventata una cosa enorme. Ricordo di un presidente di Lega usare l’espressione “i presidenti matti” intendendo con questo che l’amore per la squadra era talmente forte che rischiavano più del dovuto oltre la ragione. Però avevo sempre il pallino per il detto di uno dei vecchi presidenti, e mi riferisco a Roncarolo, per cui chi firmava le cambiali poi qualcuno le avrebbe onorate».
Al di là delle vicende bancarie, calcisticamente come erano quegli anni?
«Indimenticabili. Perché la passione ci portava ad un entusiasmo tale che diventava un divertimento. Tanto che una volta, con mio fratello, mi scappò la battuta che con la Samb mi ero divertito per quasi vent’anni e che se, invece della Samb, avessi avuto l’amore per la caccia forse mi sarebbe costato di più. Quindi non ho rimpianti di nessun genere»
Senza far torto agli altri presidenti, perché ce ne sono stati più di uno, qual’è quello che ricorda con maggior affetto?
«Posso dire che lavorare fianco a fianco a Zoboletti fu una esperienza unica. Era una persona squisita, un emiliano nel senso più pregiato del termine. Era una personalità che incuteva rispetto dovunque si andava. Ricordo di averlo visto più volte, le sere che precedevano le partite, familiarizzare con i giocatori mettendosi a scherzare e cantare con la squadra. E questo, per il morale del gruppo, non aveva prezzo. Cercava sempre di sdrammatizzare il più possibile».
Ricorda qualche episodio legato a Zoboletti durante una partita?
«Sì. E purtroppo fu un episodio molto triste e negativo. Era la prima partita di Coppa Italia a Pescara. Ad un certo punto, prima del fischio d’inizio, da un gruppo ristretto di tifosi rossoblu, che poi si vociferò erano stati mandati lì apposta per fomentare, si levò un coro offensivo all’indirizzo suo e di sua madre, una anziana signora che era costretta dall’età a girare in carrozzella e che per quella gara aveva portato con sé. Io che ero accanto a lui sentii una pena ed un rammarico che ancora me lo porto dietro».
Qualche aneddoto più piacevole?
«Quella volta che ci giocammo la possibilità della salvezza a Piacenza per non retrocedere in serie C. La squadra di casa era già retrocessa e l’arbitro, credo di Biella, non vide un goal regolarissimo del nostro giocatore Pirozzi. Non ricordo se l’errore fu suo o del segnalinee ma io, che come dirigente ero in campo e mi trovavo non lontano dalla porta, posso assicurare che quella rete era validissima. Poi si disse che quel risultato doveva favorire il Brescia. Ricordo solo la battuta del direttore sportivo Biagio Govoni che per consolarmi mi disse di lasciar stare tanto non ci si poteva fare nulla visto che gli altri avevano il cannone mentre noi non avevamo che il moschetto per far valere i nostri diritti».
Tra gli allenatori, quello che ricorda con maggior affetto?
«Posso dire che Roberto Clagluna era un ragazzo squisito. Mi ricordo di quella volta che, verso la fine del campionato, si era a metà degli anni ’80, volevano indire una riunione d’urgenza per esonerarlo visto che i tifosi fuori dallo stadio erano in agitazione. Io dissi che non potevamo farci intimorire dai supporter rossoblu e che forse sarebbe stato meglio andare prima a casa e rifletterci sopra. Infatti non fu esonerato nonostante i tifosi fossero in tumulto davanti ai cancelli. E ci salvammo sotto la sua direzione. Poi, a fine campionato, un giorno mi trovavo per caso a parlare con un altro dirigente (Gabrielli detto Ferrettì ndr) fuori dal suo chiosco mentre passava Clagluna in macchina».
Cosa successe?
«Bloccò la macchina, sua moglie venne verso di me e mi si abbracciò al collo con profonda commozione e gratitudine. Mi ricordo sempre di quando, in una partita a Bologna, lui era indeciso se fare giocare Cagni e mi chiese un consiglio. Io risposi che doveva seguire il suo istinto. Cagni fu beccato dal pubblico per tutta la partita ma non per questo Clagluna fu esonerato e ci salvammo lo stesso anche se la stampa locale era per un rinnovo completo della squadra».
In quei tempi il rapporto con i tifosi era condizionante?
«Io personalmente non lo permettevo. Ricordo la partita con il Bari, già salvo, dove si doveva vincere per forza, pena la retrocessione. Da premettere che a quel tempo le trasferte erano più difficili da organizzare. Decisi di non organizzare nessun trasporto per loro. Perché sapevo dentro di me che se andavamo con loro potevamo alterare lo stato d’animo dei nostri giocatori. Fu una partita che dire strana è poco. Alla fine vincemmo quattro a tre con uno dei nostri giocatori, Turrini, che si mise a fare il Sivori in mezzo al campo con il solo risultato di fare indispettire gli avversari. Così invece di una nostra tranquilla vittoria ce la dovemmo sudare fino alla fine. I due inglesi del Bari fecero il loro secondo e terzo gol quando eravamo sul 4 a 1. Al ritorno, mentre la squadra si fermò a Foggia, io ripresi la via del ritorno e arrivato all’uscita dell’autostrada c’era una folla di gente ad esultare. Qualcuno mi riconobbe e mi festeggiò. Io pensai a cosa mi avrebbero detto se il risultato non era stato quello sperato».
Ha assistito mai a fatti discutibili?
«In due ultime gare di tornei cadetti si sentirono chiacchiere dopo quanto era avvenuto in campo. A Genova, che per parte sua non aveva nulla da temere dal risultato, dove vincemmo due a uno, anni ’85-’86, ricordo che l’arbitro Pairetto fu molto accondiscendente nei nostri riguardi ma può capitare visto che gli arbitri solitamente non ci favorivano. Anche quella del 4-3 di Bari fu una salvezza miracolo, diciamo, poco limpida secondo qualche osservatore».
Avete mai pensato alla serie A?
«Nell’anno che ci salvammo a Genova, nel girone di andata eravamo secondi, la stampa spingeva per rinforzare la squadra e tentare la serie A ma noi dovevamo far quadrare anche il bilancio e così iniziammo a vendere qualche pezzo per far quadrare i conti».
Dal secondo posto ad una sofferta salvezza contro il Genoa tanto che pare che qualcuno avesse annunciato la vittoria della Samb… già all’ora di pranzo. Forse, in risposta ai tanti cannoni degli altri, anche la Samb ha usato qualche volta il suo… fucile da caccia. Chissà.
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