ASCOLI PICENO – Massimo Rossi intervistato dal quotidiano comunista “il Manifesto”, che a pagina 15 riporta, con il titolo di “Marche double face”, la diversa situazione del centrosinistra marchigiano, vittorioso ad Ancona nonostante gli scandali giudiziari e a Fermo con il verde Fabrizio Cesetti, e sconfitto, invece, nella Provincia di Ascoli, complice la rivalità fratricida tra il presidente uscente Massimo Rossi e il suo ex vicepresidente Emidio Mandozzi. Riportiamo l’intervista di Rossi, riservandoci, successivamente, una valutazione complessiva su tutto il centrosinistra piceno.
«C’è stato un disegno a tavolino del gruppo dirigente del Pd del Piceno. Ha deciso che, alla luce delle politiche dell’anno scorso, c’era la possibilità di recuperare lo spazio di potere che aveva dovuto cedere nelle precedenti elezioni. La qualità del lavoro svolto, il consenso, erano insignificanti. A mio parere, poi, l’onorevole Agostini ha cercato di condizionare questa scelta con l’intento di sgomberare il campo da figure che potevano mettere in crisi la sua leadership. Il fatto che l’amministrazione avesse un consenso ampio, fino a Confindustria, perché metteva in campo la partecipazione di più attori, non contava nulla. C’erano stati un metodo di lavoro e contenuti che avevano coinvolto l’intero tessuto socioeconomico e questo metteva in ombra leader locali che vedono la politica come qualcosa che controlla, dispone e da cui dipende tutto il resto. C’era la volontà di soffocare questa esperienza che aveva dimostrato che si può governare in modo diverso, in cui si può dare spazio alle idee migliori, invece che andare alla ricerca del consenso facile. Le motivazioni della divisione furono pretestuose. Siccome la provincia si stava dividendo da Fermo, non si poteva riproporre il vecchio presidente. Addirittura avevano paura che una mia ricandidatura poi aprisse ad un terzo mandato. Si proposero le primarie. Si è palesata l’idea che forse poi, accettando le primarie, io avrei potuto vincerle e sarei stato lo stesso candidato. Ma sarebbe stata una pagliacciata, perché tra un presidente e un vice-presidente, dopo aver condiviso 4 anni e mezzo di lavoro comune, sarebbero state viste come un gioco di potere e avrebbero portato ancora più in basso l’idea della politica».
In cosa siete diversi dal Pd?
«Ad un certo punto è stata chiara la divaricazione tra il nostro modo di intendere la politica e il loro. Io sto riflettendo su chi dice che dobbiamo essere uniti. Penso che l’unità sia importante, ma che prima bisogna trovare le ragioni dell’unità. Capire con chi dobbiamo essere uniti e per che cosa. Se ci si rende conto che chi fa un percorso con te in realtà ha una visione diversa della politica, non accetta la partecipazione e intende il governo del territorio come la gestione del potere; e ha una idea diversa del futuro, parlando di infrastrutture come motore di sviluppo e di territorio come di qualcosa di cui si può disporre a piacimento, senza condividere le scelte. A quel punto si capisce che bisogna ricostruirlo, questo centrosinistra. E dividere chi ha ragioni diverse, per presentarsi ai cittadini con proposte riconoscibili e attrarre chi vota Lega o Forza Italia. Sennò è inutile che ci stupiamo. Se non siamo in grado di fare proposte diverse, finiremo sempre più in basso. Questi richiami all’unità non hanno ragione di esistere».
Per questo non avete appoggiato il Pd al ballottaggio?
«Certo. I nostri voti non sono pacchetti che si spostano per accordi e scambi: sono voti consapevoli. Noi abbiamo consigliato al candidato del Pd di chiarire quali sarebbero stati gli assessori e di rendere noti ai cittadini anche i suoi progetti in merito di infrastrutture. Ma non ci ha ascoltato. Io, personalmente, ho detto che non mi sarei recato alle urne del ballottaggio. Non era una indicazione di voto. Sarebbe stato premiare un atteggiamento di rottura. Un atteggiamento arrogante che avrebbe avvallato in futuro comportamenti analoghi».
Analizzando anche la situazione italiana, secondo la sua esperienza di bilancio partecipativo, qual è il punto su cui la sinistra deve far leva per ripartire?
«Ripartire da una idea di politica che coinvolge e cerca le idee, non i consensi in base alle proposte più popolari in quel momento. E bisogna chiamare anche i cittadini che hanno visioni inquietanti. Perché anche con lo scontro si arriva ad una crescita, ad una evoluzione. Non è una questione di vittoria elettorale. Non bisogna subordinare la vittoria al progetto. Se non ci si riesce bisogna tenere duro su quel progetto e creare il consenso. Questo è quello che è successo in questo paese».